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La vita sull'alpe

Noi abbiamo caricato l’alpe dal 1910 ininterrottamente fino al 1953. A voler raccontare tutto quello che abbiamo passato in questo tempo, si potrebbe scrivere un grosso libro. Mi limito ad alcuni ricordi.

Era l’anno 1921. Verso la metà di agosto, io avevo allora nove anni, un’alluvione in una sola notte portò via come fuscelli tutti i ponti di Val Bavona, eccetto due, quello di Sonlerto detto della Prèsa, e quello alla Fontana, del Chiall. Noi eravamo al Pienasc; aveva diluviato tutto il giorno, e verso sera volevamo andare al Corte Grande, essendo un posto più sicuro. Ma in mezzo al corte del Pienasc, che di solito è un posto privo d’acqua, passava un torrente grosso come un fiume, e non era possibile attraversarlo, né per la gente, né per le bestie. Abbiamo dovuto passar la notte lì, notte che non dimenticherò più. In tutte le cascine, ad eccezione di una, l’acqua entrava dai muri e usciva dalla porta, alta trenta o quaranta centimetri, così che galleggiavano gli sgabelli, le scarpe, la legna del fuoco. Ci riunimmo tutti nella cascina più asciutta, dove in qualche maniera potemmo accendere il fuoco, però ci si bagnava, perché l’acqua entrava dai tetti e dai muri; eravamo sei persone, e tutta la notte senza un momento di sosta fu acqua grandine e tuoni; dal Madone continuavano a cadere sassi. Abbiamo passato tutta la notte svegli, a recitar preghiere, con la certezza quasi di non più veder spuntare un altro giorno. Poi, quando Dio volle, spuntò l’alba, e anche il tempo si placò. Il corte era coperto di melma; le povere bestie parevano impietrite, poi a poco a poco i torrenti diminuirono e così verso sera, prendendo con noi lo stretto necessario, riuscimmo a raggiungere il Corte Grande, ringraziando Dio di averci scampata la vita.

Nel 1928 Sologna era abitata da quattro famiglie. Eravamo diciassette persone quasi come una frazione di Val Bavona. L’alpe era caricato con 54 capi di bestiame grosso e 430 capre. L’estate fu bella, malgrado le fatiche della vita alpestre. Alla sera ci si riuniva tutti nella cascina più grande; prima si recitava il rosario, poi si cantava, si raccontavano storie, e verso le dieci, stanchi della giornata di lavoro, ma tuttavia contenti, ciascuno ritornava nella propria cascina per il riposo fino alle quattro e mezza del mattino. Arrivò la fine d’agosto; scaricata la maggior parte del bestiame, con poco che rimaneva scendemmo a Corte Nuovo.

Ma un brutto mattino ai primi di settembre, andando alla stalla per mungere le vacche ne trovammo due malate. Era l’afta epizootica; la malattia veniva dalla Formazza. In pochi giorni tutte le bestie furono contagiate, mucche capre maiali. Per noi ci fu il sequestro.

Una volta la settimana potevamo scendere in paese una o due persone a prendere lo stretto necessario, subendo ogni volta un rigido controllo di disinfezione. Fummo costretti a restare a Corte Nuovo, malgrado il brutto tempo, il gelo e la brina, fino al primo di ottobre. Poi ci lasciarono scendere, e ci fecero fare quaranta giorni di sequestro nella frazione di Roseto. Così finì anche la stagione 1928.

Voglio ora descrivere la vita dell’alpigiano di quarant’anni fa. Al mattino sveglia alle quattro e mezza, mungitura delle bestie, una frugale colazione, e poi la lavorazione del formaggio. Poi di solito si andava a far legna, perché sull’alpe ce n’è un forte consumo. A mezzogiorno il consueto pasto di panau (farina di mais cotta con il latte), poi un breve riposo, dopo il quale si andava nelle pasture in cerca delle bestie per la seconda mungitura. Pulizia dei secchi e conche per il latte, e infine la cena; tutte le sera senza eccezione era il riso e latte. Un giorno sì e uno no, c’era il lavoro in cantina: la cura del formaggio, con la salatura a mano, che è molto laboriosa, ma che mi sembra assai migliore dei sistemi che usano oggi. Questo lavoro della cantina col passare dell’estate aumentava, e verso la fine di agosto ogni volta durava due o tre ore. In settembre c’era il lavoro più duro per gli alpigiani di Val Bavona: bisognava trasportare tutto il formaggio a valle, con la cadola, dal Corte Grande fino a Roseto; ogni viaggio durava, tra lo scendere e il salire, cinque ore. Caricavamo in media tra i quaranta e i cinquanta chili per viaggio.

Testimonianza di Daniele Dadò, raccolta da Plinio Martini e pubblicata nel volume Nessuno ha pregato per noi, edito da Armando Dadò, Locarno 1999.

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