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La leggenda delle ninfee

Gino, ho da fare a Lugano, questo pomeriggio. Proibizione assoluta di giocare in riva al lago o di avventurarsi verso Cortivallo, dove sono accampati gli zingari! Va dalla zia e non ti allontanare!

Dopo aver fatto queste raccomandazioni al suo figlioletto, un bimbo dai sei ai sette anni, la madre si avviò a Lugano. Era costei una donna ancor giovane che tutto il paese stimava per le sue virtù e compiangeva per le sue disgrazie. A Muzzano la chiamavano "l'Agnesina"; rimasta orfana in giovane età, aveva dovuto lavorare per vivere, finché si sposò; ma il matrimonio fu ben presto spezzato per la morte del marito taglialegna, su cui si era abbattuto un albero nei boschi di Biogno. Sicché ora ella abitava con l'unico figlio nella casetta lasciata dal defunto, vivendo coi prodotti dell'orticello, col latte delle sue capre e coi proventi dei servizi che rendeva ai vicini.

Quando quella sera rincasò, non trovò il suo Gino, ma non vi fece caso, pensando fosse ancora dalla zia, la sorella di suo marito. Poiché però tardava a tornare, andò a cercarlo, e per poco non svenne al sentire che la cognata quel giorno neppure l'aveva veduto. Dove poteva dunque trovarsi? La povera donna fece in lacrime il giro del villaggio, chiedendone a tutte le famiglie. Invano! Nessuno seppe dargliene conto.

Allora corse sulle rive del lago e chiamò con tutte le sue forze senza ottenere altra risposta che il gemito del vento fra le canne. Tutta la notte errò attraverso i campi e i boschi, disperata, gettando all'eco le sue grida e i suoi singhiozzi; a momenti tendeva l'orecchio ma non percepiva che l'abbaiar lontano dei cani e lo stridere delle civette.

All'aurora ritornò estenuata, e si temette che impazzisse. Tutti la circondavano per compatire e alleviare il suo gran dolore, mentre gli uomini si misero alla ricerca. C'era ancora una speranza: che Gino fosse stato portato via dagli zingari di Cortivallo, che per l'appunto avevano tolto il campo la vigilia; quella gente, lo si sa, era sospettata di rapir fanciulli. Sotto la direzione del luogotenente della polizia di Lugano, si misero dunque sulle loro tracce, e li raggiunsero in territorio di Sessa.

Ahimè. Le ultime speranze svanirono. Arrestati, gli zingari dichiararono che per mera coincidenza essi si erano allontanati il giorno stesso della scomparsa di un ragazzo che non avevano mai veduto, e si sottomisero docilmente a tutte le perquisizioni, le quali dovevano provare la loro innocenza; in capo a qualche giorno furon rimessi in libertà.

Il mistero restava impenetrabile. Si scartò l'ipotesi che Gino avesse fatto un giro per andare dalla zia, rimanendo vittima dei lupi, perché non si era nella stagione in cui quelle fiere, spinte dalla fame, si avvicinano alle abitazioni; e poi non si trovavano brandelli di abiti nè resti di ossa umane. Sicché si dovette concludere con la spiegazione più ovvia: il bambino aveva disubbidito alla mamma, si era avvicinato troppo all'acqua, e ora giaceva in fondo al lago. Le brave donne di Muzzano presero anzi a citare ai loro figliuoli l'esempio di Gino, per mostrar loro dove conduce la disobbedienza.

Agnesina stessa si lasciò convincere. Il dolore di aver perduto il bambino, unica sua gioia quaggiù, l'aveva condotta sull'orlo della tomba; e poi si era rimessa, si era rassegnata alla terribile prova e aveva ripreso la sua umile vita; soltanto si notava che i suoi capelli erano incanutiti in poche settimane e che non passava giorno senza che ella si portasse dalla parte del lago, per pregare e piangere, sola col suo cordoglio...

Il lago di Muzzano era allora l'ultimo lago del mondo che possedesse ancora una ninfa, una di quelle creature di cui l'immaginazione antica popolava le onde. Questa particolarità risaliva, raccontavano, al grande Sant'Abbondio.

Un giorno che l'apostolo di Como predicava il Vangelo all'entrata della Collina d'Oro, fu circondato dalle ninfe della regione, che empiamente danzarono intorno a lui, e lo caricarono di motteggi... Solo la più giovane, di nome Ondina, si tenne rispettosamente da parte e tentò d'imporre silenzio alle compagne, senza riuscirvi. A un tratto il Santo si rizzò con tutta la sua alta statura, levò il bastone come per dare un segnale, e invocò sulle sfrontate la maledizione del cielo. Nel medesimo istante si vide uscire dalla foresta di Bosco un branco di lupi, che attraversò la valle, si slanciò sulle ninfe e le sbranò. Ondina fu risparmiata, e il Santo le disse:

"Perché hai rispettato colui che viene nel nome del Signore, tu ritornerai nel lago, e ci vivrai fin tanto che resteranno lupi nel Malcantone".

Da quel giorno, si diceva, Ondina abitava una caverna in fondo al lago, e nelle notti di primavera ne fioriva nascostamente le sponde. Benché avesse ormai raggiunto l'estrema vecchiezza, aveva conservato la bontà d'animo che le era valso di sfuggire alla distruzione della sua razza, e si sentiva invadere dalla tristezza ogni volta che scorgeva sulla riva la povera Agnesina piangere il suo figliuoletto e sporgersi sulle acque, quasi ad evocarne l'immagine. Allora, per manifestarle la sua simpatia, Ondina cambiava le lacrime cadute dagli occhi dell'infelice madre in altrettante piante misteriose, di cui non si vedevano gli steli, mentre le foglie larghe e graziose sembravano deposte sulle onde dalla mano delicata di un artista come teneri smeraldi su di un fondo azzurrino.

Le genti di Muzzano furono stupite di quella insolita vegetazione, e però non videro in essa che un nuovo esempio delle meraviglie con cui la bontà del Creatore ha ornato la dimora degli uomini. Ma Agnesina interpretò diversamente il fenomeno; quella comparsa imprevista di foglie verdi le apparve come un simbolo di speranza; dopo aver creduto, come tutti, alla morte del suo figliuolo, si ribellò a quest'idea; e, spinta da una persuasione irragionevole, continuò le sue passeggiate quotidiane al lago, per aspettarvi il ritorno di Gino.

I mesi, gli anni, i lustri passarono, e ogni sera si vedeva, in riva alle acque su cui si moltiplicavano le foglie, la pertinace madre che piangeva e insieme sperava, sgranando la corona del rosario.

Di fatto, Gino non era morto... Mentre andava dalla zia, senza affrettarsi, cogliendo fragole e acchiappando farfalle, era stato preso e portato via dagli Uccisori di Lupi.

Questi Uccisori di Lupi, che infierirono nelle Alpi durante la prima metà del XV secolo, erano un'organizzazione di avventurieri che vivevano della caccia. Cacciatori abilissimi, si offrivano di sbarazzare certe regioni dai lupi e anche dagli orsi, rendendo così dei veri servizi; sicché per qualche tempo furono lasciati liberi di scorrazzare per il paese. Ma, abusando di questa confidenza, rapivano bambini cristiani per venderli ai Turchi che ne popolavano la famosa milizia dei giannizzeri; e, siccome agivano con molta astuzia, si mettevano queste sparizioni sul conto degli zingari o delle bestie feroci. Quando scomparve Gino, si sapeva benissimo che una banda di Uccisori di Lupi si trovava nel Malcantone, ma a nessuno passò per la testa l'idea di sospettare così brava gente ...

Intanto il fanciullo subiva la dura educazione dei giannizzeri, ossia di quei fanatici eroi il cui valore creò l'impero turco, e la cui indisciplina doveva un giorno distruggerlo. Non fu difficile sviluppare in Gino le qualità proprie di un soldato scelto, perché era naturalmente coraggioso; ma fu meno facile inculcargli il fanatismo mussulmano: da una parte non poteva risolversi a odiare Gesù, di cui un tempo, sulle ginocchia della mamma, pronunciava il nome con tutto il suo amore di bimbo; d'altra parte, se i lineamenti materni erano alla lunga sfumati nel suo ricordo, aveva però conservato una vaga immagine del lago del suo paese natìo, circondato da un orizzonte di montagne, e non aveva rinunciato alla speranza di ritrovare un giorno tutte queste cose confusamente care.

Nel 1453, durante la presa di Costantinopoli da parte del sultano Maometto II, Gino, ancor troppo giovane, non prese parte alla battaglia; ma nel 1456 aveva raggiunto i diciannove anni, e con l'armata turca si trovò all'assedio di Belgrado.

Non possiamo oggidì immaginare l'angoscia che strinse allora l'Europa. Proprio quando le grandi nazioni di occidente uscivano stremate dalla guerra dei Cento Anni, il torrente turco irrompeva sulla Cristianità. Per arginarlo, non si poteva contare che su di un piccolo esercito comandato dal più grande eroe ungherese, Giovanni Hunyadi, e su qualche migliaio di Crociati, arruolati dal francescano Fra Giovanni da Capistrano. Questi supremi difensori della civiltà si erano trincerati nella cittadella di Belgrado, a cui Maometto II si accingeva a dar l'assalto; se la fortezza fosse caduta, ci sarebbe stata una spaventosa invasione in Europa.

Ora, una notte di luglio, mentre Hunyadi conferiva con Fra Giovanni, gli condussero un giovane giannizzero che si era presentato alle sentinelle ungheresi. Era Gino: egli spiegò che non conosceva la sua patria, ma era sicuro di essere nato cristiano e non voleva combattere contro Gesù Cristo; in pari tempo rivelò che il grande attacco del nemico era prossimo. Hunyadi, dopo averlo interrogato, scambiò alcune parole con Fra Giovanni; e Gino sentì un tuffo al cuore nell'udire il francescano parlare una lingua il cui dolce suono si ripercuoteva nella sua memoria con un'eco che turbava le più intime fibre della sua anima.

"Padre, lei parla la lingua del mio paese!" esclamò.

"Ah, dunque sei nato in terra italiana!" disse Fra Giovanni. "Ebbene, ti ricondurrò nella tua patria, ma a due condizioni: che tu ti batta valorosamente per l'onore del nome di Gesù, e che noi siamo vincitori, poiché si tratta di vincere o di morire".

"La prima condizione sarà adempita!" rispose semplicemente Gino. L'esercito turco diede l'assalto la mattina del 21 luglio, e fu una giornata terribile. Nonostante l'eroismo di Hunyadi e dei suoi Ungheresi, i battaglioni nemici erano così numerosi, che forzarono i baluardi, i bastioni, e si sparsero in tutta la città, giungendo fin sotto alla fortezza. Tutto sembrava perduto, quando una carica di Crociati condotti da Fra Giovanni, fece indietreggiare l'invasore e permise alle forze cristiane di raggrupparsi. Ma il sultano non si dava per vinto per così poco: tornò all'attacco più di dieci volte, e ogni volta fu respinto, grazie a prodigi di valore. La sera il sole del tramonto illuminò coi suoi rossi bagliori una città rovinata, dove fumavano ancora gl'incendi, mentre montagne di morti erano immersi in un lago di sangue. E malgrado l'indescrivibile carneficina la cittadella non si arrendeva.

Dopo qualche giorno, i cristiani a loro volta contrattaccarono. Disorientati per uno scacco che era costato loro tante migliaia di morti, i Turchi non resistettero che qualche ora, prima di rassegnarsi a una ritirata che ben presto si trasformò in sconfitta. La vittoria della Cristianità era decisiva, totale; ma disgraziatamente la moltitudine dei cadaveri aveva provocato una terribile epidemia, di cui Hunyadi fu una delle prime vittime: nel mese di agosto il salvatore dell'Europa spirò in mezzo al suo esercito costernato.

Anche Fra Giovanni fu colpito. Però, desideroso di portarsi a Roma, partì in compagnia di qualche amico e del suo giannizzero che, fedele alla sua parola, aveva combattuto come un leone. Ma il santo religioso aveva presunto troppo dalle sue forze; e dovette fermarsi a Villaco, in Carinzia, non lungi dal colle di Tarvis, dove si spense il 25 ottobre. Prima di morire, aveva lasciato al suo protetto una lettera autografa, con la quale pregava le comunità francescane dell'Italia Settentrionale di aiutare il giovane a ritrovare la sua patria.

Gino pianse e pregò con fervore sulla spoglia di Fra Giovanni; poi, dopo le esequie, si mise in cammino per Venezia.

Durante tutto questo tempo, in riva al lago di Muzzano, una donna dai capelli bianchi veniva ogni sera per cullare il suo dolore al mormorìo della brezza che scherzava fra le canne; ogni sera ella vedeva comparire sull'acqua qualche misteriosa foglia verde, e, sebbene la speranza sembrasse ogni giorno più folle, tuttavia ella non desisteva dallo sperare...

L'inverno e la primavera trascorsero per Gino in vane ricerche; in Italia vi sono tanti laghi chiusi da un orizzonte di montagna, che ci voleva assai tempo per farne il giro, soprattutto allora, che bisognava camminare a piedi. Da Venezia il giovine era andato a Roma attraversando la Toscana, poi era risalito per Genova e aveva percorso il Piemonte, ma sempre indarno, e la gente stupiva nel vedere questo pellegrino di un genere inedito che pretendeva trovare un paese di cui non sapeva nulla. Ma lui, non si scoraggiava. La mattina del 2 luglio, anniversario della battaglia di Belgrado, lasciò il convento di Varese, munito di una lettera di raccomandazione per il convento di Lugano. Fece il giro fino al Lago di Ponte, che non gli rammentò nulla, poi passò i laghi di Ganna e di Ghirla che essi pure lo lasciarono indifferente. Dopo essersi ristorato e aver preso un po' di riposo a Marchirolo, discese verso la Tresa e seguì la strada di Agno. Sulla destra le onde turchine del Ceresio scintillavano al sole, ma Gino diceva fra sè che quel lago era troppo grande per essere il suo. Ancora una giornata, dopo tante altre, che non apporterebbe nulla...

Il sole si abbassava lentamente sulle montagne, e il giovane, attraversato Agno senza fermarsi, già aveva passato Agnuzzo quando fu pervaso da una strana impressione. Si sorprendeva a respirar l'aria a pieni polmoni, quasi a impregnarsi di un profumo sottile e dolcissimo. E a un tratto scoperse un laghetto, in riva al quale sembrava stesse meditando una donna in gramaglie. Sentì a quella vista un tuffo al cuore, come quando per la prima volta aveva udito Fra Giovanni parlare italiano. Allora, bruscamente, non seppe più quel che si faceva. Con una mano afferrò il berretto e si diede a correre come un pazzo nella direzione dell'acqua, capelli al vento, occhi sbarrati, bocca aperta.

Al rumore di quei passi l'Agnesina si voltò, tese le braccia spalancate, e la voce del sangue scoppiò in due gridi che s'incrociarono: "Gino!".

"Mamma!".

Madre e figlio rimasero a lungo abbracciati in silenzio, mentre lacrime di felicità scendevano sulle gote abbronzate dell'uno e solcavano il volto rugoso dell'altra...

Quando si staccarono, i loro sguardi furono abbagliati da un prodigio: le onde del lago, agitate dal venticello vespertino, erano fiorite in un istante; vicino alle foglie verdi, si estollevano centinaia di fiori bianchi, i cui petali assumevano uno splendore cangiante sotto la carezza dei raggi dorati del sole al tramonto. Agnesina non stentò a capire il simbolo di tutte quelle corolle sbocciate che fremevano in armonia col suo cuore materno in festa: la gioia coronava la tenace speranza.

Ben presto gli abitanti di Muzzano, richiamati da lontani testimoni della scena, si fecero intorno a loro. Commossi, felicitarono la fortunata mamma che, appoggiata al braccio del figlio redivivo, fu ricondotta cantando alla sua modesta casetta. Poi, in ricordo di Ondina, diedero al fiore sconosciuto sbocciato sul loro lago il bel nome di ninfea...

Non so dire quanti anni l'Agnesina sopravvisse a questi memorandi eventi. Gino passò il resto della sua esistenza a Muzzano, dove lo chiamavano, senza cattiveria, "il Turco", o, più familiarmente, "il Turchino". Devotissimo, divenne in certo modo il sagrestano della cappella di Agnuzzo, dove il popolo di Muzzano, non avendo ancora una chiesa propria, si recava allora per la messa domenicale. Donde ne venne un modo di dire che si ripetè per molto tempo, per sottolineare la pietà dei fedeli di quella plaga: "Ad Agnuzzo persino i Turchi vanno a messa".

Nel 1498, una peste spaventosa devastò il villaggio di Muzzano. "Turchino", coraggioso in questa circostanza come lo era stato all'assedio di Belgrado, si prodigò senza sosta al capezzale dei malati finché lui pure fu portato via dall'orribile flagello. Lo seppellirono vicino alla sua mamma, per aspettarvi il risveglio del Gran Giorno e il viaggio verso la Patria eterna.

Oggi i lupi sono scomparsi da molti anni dal Malcantone, e Ondina ha lasciato a un tempo il posto che occupava nell'immaginazione popolare, e la caverna che abitava sotto le acque. Ma sussistono ancora dei testimoni della vecchia leggenda che ho cercato di raccontarvi: sono le ninfee che coronano il lago di un bianco diadema picchiettato di smeraldi, grazioso simbolo della invincibile speranza che sempre sopravvive nel cuore delle mamme che piangono, e delle gioie ineffabili che Dio serba loro.

 

L. Delcros, La lepre di Santa Tecla. Leggende ticinesi, Edizioni Vita Femminile, Lugano 1959


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