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Il medico delle Cassinelle

A quei tempi, da Agno a Neggio si estendeva una grande foresta, la Selva, il cui nome serve ancora a designare una frazione della parrocchia.

I feudatari e i loro amici vi braccavano bellissimi cervi, superbi cinghiali e graziosi caprioli; di quando in quando organizzavano una battuta contro i lupi che allora infestavano il paese. Per un privilegio, a quei tempi abbastanza raro, essi autorizzavano i contadini ad agguantare qualche lepre scesa al piano: generalmente quelle lepri erano vendute ad Agno o a Lugano per procurarsi un po' di denaro, ma quella magra risorsa non compensava i danni causati dai cacciatori o dai loro cani, e gli abitanti della Selva erano miserabili.

Il più povero di tutti era certamente un boscaiolo soprannominato "Capra", forse a motivo della sua agilità. Fatto sta ch'egli era lesto come uno scoiattolo, ma avrebbe potuto moltiplicare salti e acrobazie senza che gli fosse caduto un soldo in tasca, dato che non possedeva un centesimo. Il suo guadagno di lavoratore era speso prima ancora di riceverlo: la casupola ch'egli abitava alle Cassinelle lasciava passare, a seconda delle stagioni, il vento o la pioggia; aveva sei bambini e non sempre di che sfamarli; e, come spesso avviene in simili casi, sua moglie sapeva più brontolare che sorridere. Quello poi che più faceva stizzire la brava donna, era di vedere il marito sempre di buon umore; Capra infatti prendeva le cose per il loro verso, si consolava pensando che sarebbe potuta andar peggio, e lavorava con tanto ardore che dimenticava i suoi mali.

Però un mattino egli infilò il sentiero della Selva mogio mogio, senza cantare. La sera prima la grandine aveva devastato il suo orticello, durante la notte il suo ultimo nato era stato colto da convulsioni, e appena alzata sua moglie gli aveva rivolto parole dure. Preso per la prima volta in vita sua dall'amarezza, andava rimuginando pensieri tetri:

"Mai denaro e mai pane a sufficienza, che vita è questa? Aver sempre addosso una moglie che grida e i bambini che hanno fame! Non poter mai mettere un po' di burro sul loro pane! Quando la provvidenza mi fa prendere una lepre, non poter mangiarla, ma esser costretto a venderla per comperare un po' di latte! Lavorare tutti i santi giorni, senza mai poter migliorare la mia condizione! Ne ho abbastanza".

Ma giunto al cantiere, il suo buon umore ebbe di nuovo il sopravvento: "Non tutti i mali vengon per nuocere. Mia nonna aveva ben ragione di ripetere:

 

La capra che non ha latte

è quella che meglio salta!

 

Se questa vita grama non ha latte per me, quando verrà la morte salterò senza fatica nel mondo di là. Che la morte mi lasci il mio ultimo nato e porti pur via me, sarà ben fatto!".

Aveva appena formulato questo pensiero ch'egli sentì una presenza; e sul sentiero nel fitto del bosco, intravide uno scheletro che portava una falce: subito riconobbe la Morte.

"Ti ho udito", disse. "Sta tranquillo, lascerò stare il tuo bambino che stasera sarà guarito. Invece prenderò te, perché è suonata l'ora del gran viaggio".

Il boscaiolo si strinse nelle spalle e si sentì la fronte madida di sudor freddo, ma subito si riprese:

"Non vi aspettavo così presto, signora Morte, ma ciò che ho detto è detto. Partiamo per un mondo migliore!".

Stavolta fu la Morte ad esser sorpresa:

"Non sei come gli altri, tu! Di solito gli uomini stentano a seguirmi; non pensano che li libero dalle loro pene e che li tolgo da questa valle di lagrime, dov'essi sono esiliati, per ricondurli nella loro vera patria; no, preferiscono ricaricarsi sulle spalle il loro fardello di miserie, con maggior premura che tu non ne abbia a caricarti delle tue fascine. Tu ti comporti diversamente, tu non rimpiangi la tua grama vita: lasciamelo dire che tu mi piaci".

"Come siete gentile, signora Morte, perché è da un pezzo che mia moglie non mi ha detto tanto!...".

Uno strano sorriso fiorì sui denti ingialliti della Morte. "Allora", essa chiese, "tu non mi rimproveri proprio nulla?".

"E cosa volete che vi rimproveri? Voi siete la sola creatura giusta che esista al mondo. Voi non guardate in faccia a nessuno: andate a prendere i re nei loro palazzi e i poveri nelle loro bicocche; un giorno voi sbarazzerete il Malcantone del conte Ruggero come oggi liberate me dalla mia miseria. Tutto ciò è giusto e non c'è da discutere. Se l'ora è venuta, tanto basta! Andiamo...".

"Visto che mi fai così buona accoglienza, voglio fare anch'io qualche cosa per te. M'intenderò con il Signore, e non verrò a prenderti che fra sette anni e sette giorni".

"Bella cosa a parole, ma in pratica avrò ancora sette anni e sette giorni da soffrire e da veder soffrire i miei cari. Se almeno fossero i sette anni delle vacche grasse di cui parla il nostro curato d'Agno! Ma io non so neanche cosa sia un pollo grasso, senza parlar di vacche...".

"Tu parli a vanvera. Se ti faccio un dono, non è per prolungare la tua miseria. A partire da oggi la tua vita cambierà: tu abbandonerai il mestiere di boscaiolo e diventerai medico".

"lo medico! Voi scherzate. Non si diventa medico in quattro e quattr'otto. Senza dire che io non so leggere...".

"Non è necessario. Facciamo un giretto assieme, già che oggi non ho troppa fretta, e t'insegnerò a leggere il libro della Natura".

Detto fatto. La Morte girellò con il bravo Capra sbalordito qua e là sui sentieri della Selva e attraverso i prati delle colline, per insegnargli a conoscere le erbe. Gli mostrò la bugola e la sanicola, che una volta dispensavano dal ricorrere ai barbierichirurghi, e che oggi vengono trascurate; la salvia, la schiarea, il cipero, che rendono liscio lo stomaco e decongestionano l'intestino; l'angelica che guarisce tutti i mali o quasi; la cardiaca che è un tonico meraviglioso; l'oppio che purifica i polmoni; l'agretto che preserva dallo scorbuto; la piantaggine, eccellente per il mal di gola; la bistorta, efficace tanto per arrestare il sangue di una ferita quanto per calmare le diarree, eccetto la diarrea oratoria degli uomini politici contro la quale nessuno può nulla; il cardo benedetto che mitiga i dolori reumatici; e chissà quante altre ancora. Tutte le erbe dei campi e dei boschi hanno il loro segreto e guariscono qualche male; ma gli uomini di oggi le ignorano e preferiscono la chimica.

La Morte invece le conosceva le virtù delle piante, e in un'ora di lezione all'aperto il boscaiolo imparò da lei più di quanto avrebbe ottenuto in dieci anni sui banchi della celebre scuola di Salerno. Per finire essa disse al suo allievo:

"Quanto a conoscere la malattia, non preoccuparti; io sarò invisibile per gli altri, ma tu mi vedrai accanto al malato, e io t'indicherò col dito l'organo malato, testa o cuore, milza o fegato; tu prescriverai i rimedi che fanno al caso. D'altra parte tu saprai come andrà a finire: se io sono in capo al letto, annuncia la morte in modo certo; se sono ai piedi del letto, quand 'anche il malato fosse moribondo, prometti di guarirlo. Con ciò tu sarai il miglior medico che sia esisito dopo Ippocrate!".

"A queste condizioni, posso esser medico anch'io. Grazie mille, signora Morte!". Ma già la Morte era sparita, con un rumore di zolfanelli spezzati, su per il sentiero di Cimo, dove stava spegnendosi il patriarca della famiglia Boschetti...

Come potete immaginare, Capra non aveva più nessuna voglia di affastellar legna: non voleva nemmeno pensare al termine che la Morte gli aveva fissato.

"Tutto va bene", diceva tra sè e sè, in sette anni e sette giorni avrò il tempo d'imbrigliar l'asino!".

A quei tempi in cui il linguaggio era più concreto di quello attuale, si diceva "imbrigliar l'asino" invece di "metter le cose a posto", e tutti capivano; oggi anche la gente di campagna pretende di parlare il gergo astratto dei folosofi, e più nessuno ci capisce niente. Ma questa è una disgressione che non ha nulla a vedere con il mio racconto; torniamo quindi a bomba, e cioè al nostro Capra.

Arrivò alla sua casupola cantando, gesticolando, parlando da solo, insomma come uno che avesse ricevuto in testa un potente colpo di sole. Depose la scure in un angolo e gettò il berretto di lana sulla tavola, mentre sua moglie lo guardava preoccupata:

"Melania", disse, "a partire da oggi non toccherò più una scure e non porterò che un cappello a punta. Sono diventato medico!".

"Mio Dio, che ti prende pover'uomo?".

"Eccoti una manciata di angelica: ne farai un infuso per il bambino, e stasera sarà guarito. Ora conosco rimedio a tutte le malattie: la peste, le coliche del miserere, il raffreddore del fieno, l'anemia, il sangue coagulato, la febbre quartana, la scabbia, la tosse, la malaria, i vermi dei bambini e il cattivo umore delle donne. Non c'è male che io non guarisca!".

"Signore, Madonna santa, mio marito è pazzo!".

"Lo vedremo se sono pazzo. Intanto mi hanno detto che il capitano di castel San Giorgio a Magliaso è preoccupato per via di sua moglie. Pare che la poveretta soffra di flusso di sangue alla testa; vado subito a guarirla".

Capra infilò la porta, mentre Melania si sfogava in lamenti:

"E la sua testa, chi la guarirà? Me n'ero accorta che la malattia del suo bambino gli aveva dato al cervello! Del resto è da un pezzo che non è più normale! Che disgrazia, mio Dio!...".

Pure la povera donna interruppe la sua litania per preparare l'infuso d'angelica, come le era stato ordinato. Fu stupita nel vedere che le convulsioni del bambino diminuivano, e andava chiedendosi quale mistero si celasse sotto la pazzia di suo marito. A un tratto, verso le cinque di sera, Capra ricomparve a testa alta e cantando a squarciagola. Con un lampo di malizia negli occhi, estrasse di tasca quattro scudi: una somma che mai nessuno aveva visto in quella povera casa. Melania era muta di stupore. I figliuoli guardavano ammirati, e il maggiore esclamò:

"Voglio essere medico anch'io!".

Altrettanto stavano per dire gli altri, ma Capra smorzò quegli entusiasmi sentenziando:

"Figliuoli miei, la medicina è come il giuoco dei tarocchi: non entra nella testa degli asini!".

Però non cedette al demone dell'orgoglio, e con tutta semplicità si mise a tavola per mangiare in famiglia la magra zuppa di pane e rape.

L'indomani feve venire un muratore d'Agno a restaurare la bicocca e a ricavarne così una abitazione decorosa. Poi andò a Lugano a comperarsi una sopravveste nera e un cappello a punta: a quei tempi uno non poteva essere medico se non vestiva in quel modo, come oggi se non parla di vitamine, di ormoni e di sulfamidici. La voce della sua fama si sparse rapidamente: in capo a un mese i malati facevano coda alle Cassinelle. Il nostro Capra, togato e incappellato, li accoglieva solennemente, serio come l'asino di Bertoldo quando saliva a Cureggia con le reliquie di San Gottardo. Ma non avrebbe avuto bisogno di quell'apparato, perché veramente egli era un medico come mai se n'erano visti: non si sbagliava mai. Appena entrato dal malato egli dava il suo responso; se vedeva la Morte a capo del letto, prendeva in disparte chi l'aveva fatto chiamare e dichiarava il male senza rimedio.

"Impedire alla gente di morire, è ciò che la medicina non ha ancora saputo inventare. Tutti noi dobbiamo la nostra morte a Dio, un po' prima o un po' dopo. Niente è giusto come la morte".

Insegnava a tutti ad accettare la morte, come si accetta il sole o la pioggia, come si accetta l'inverno quando l'ora è venuta. Ma se l'ora non era venuta, le sue cure erano meravigliose; qualunque fosse la malattia, non accostava un malato senza rimetterlo in piedi. E potete immaginare che vi trovasse il suo profitto: senza parlare dei doni in natura, burro e salsicce, egli vedeva affluire nella sua borsa scudi in quantità. Bisogna però dire che non era attaccato al denaro; la sua più grande soddisfazione era quella di far del bene ai suoi malati.

Un giorno, tornando dalle visite, vide sua moglie sulla soglia di casa. Visibilmente essa spiava il suo ritorno:

"È il conte Ruggero che ti ha fatto chiamare", gli disse. "Ti aspetta nel suo castello tra Beride e Croglio, e ti manda a dire di non perdere un minuto. La Viviana sta malissimo".

Colei che portava il nome di Viviana, nome di fata che oggi non si dà più, era una nipote del conte Ruggero, figlia di sua sorella sposata a un borghese della campagna di Agno, Viviana formava con suo zio il contrasto più perfetto: era tanto buona quant'egli era crudele. Non contava che diciannove primavere, era bella come un'aurora e fresca come una rosa; la sua mano era sempre aperta ai poveri e il suo sorriso dava sollievo a tutti i sofferenti. Il conte Ruggero le si era affezionato perché la sua grazia e la sua amabilità lo riposavano un poco delle cattiverie e dei capricci di sua figlia Ariana. Ma purtroppo un male misterioso, che a quei tempi veniva chiamato melanconia, si era bruscamente abbattuto su di lei; il volto in fiamme, gli occhi cerchiati di nero, l'aspetto triste, Viviana aveva perduto il controllo dei nervi e soffriva di violenti dolori al cervello; informato, il conte Ruggero l'aveva fatta trasportare al suo castello, ed è lì che aveva fatto chiamare Capra, lo stato della malata essendosi improvvisamente aggravato.

Quando il conte Ruggero chiedeva un servizio a qualcuno, lo faceva con una frase bipartita: la prima parte dipendeva dall'oggetto in questione, la seconda era sempre la stessa: "o tu sarai impiccato!". Egli accolse cortesemente il medico delle Cassinelle, ma non cambiò per questo il suo stile e gli disse chiaramente:

"Non mi è mai piaciuta la gente che fa prodigi, fossero pure medici, perché turbano l'ordine della società. Sono tuttavia lieto di riceverti, però delle due cose l'una: o tu guarisci mia nipote Viviana e sarai ricompensato, o tu sarai impiccato!".

Capra ricevette l'intimazione come un colpo in pieno petto, e seguì il conte Ruggero attraverso il castello. Entrando nella camera vide subito che tutto era perduto: la Morte era in capo al letto nel quale Viviana delirava, livida e con gli occhi chiusi. Il medico si sentiva stringere il cuore e avrebbe voluto davvero salvare la poverina, poi, ancor più forte della compassione, c'era la minaccia del conte Ruggero: "o tu sarai impiccato!". Come cavarsela? C'era di che avere i brividi, e non si poteva star lì un'ora a cercar una soluzione...

Capra si avvicinò al conte, gli toccò il braccio e lo condusse fuori. "Mi occorrono", gli disse, "quattro uomini, ma ben scelti: forti come buoi e svelti come camosci!".

Ruggero mandò a prendere i quattro uomini, e il medico parlò loro sottovoce. A un segno convenuto, essi entrarono, afferrarono il letto e lo voltarono in un batter d'occhio, mettendo i piedi là dove prima si trovava il capezzale. La morte fu tanto sorpresa che aprì la bocca, come un pesce fuor d'acqua, e rimase ai piedi del letto.

"Ebbene, per stavolta ti perdono", disse finalmente al medico, "ma bada bene di non ricominciare perché il nostro contratto sarebbe rotto. Del resto hai avuto torto, perché la Natura è buona e sa ciò che fa quando mi dà qualcuno. Viviana continuerà a vivere, ma diventerà pazza. Credi che avrà guadagnato al cambio?".

"Signora Morte", rispose Capra, "vi prego di scusarmi, ma io volevo salvar la mia pelle! Quanto a Viviana, essa non avrà che da recarsi dall'eremita di Torello" che possiede l'arte di guarire le ragazze matte. Intanto siamo salvi tutti e due. Grazie mille!".

Se Viviana sia andata a trovare l'eremita in questione, nessuno lo sa. Certo è che, grazie a Capra, il proverbio secondo il quale "a tutto c'è rimedio salvo che alla morte" era stato una volta almeno smentito. Questo prova che non bisogna mai disperare, che si deve sempre provare, cercare il mezzo, aguzzare l'ingegno: insomma, "Aiutati che il Ciel t'aiuta".

Ahimè, malgrado la bellezza del luogo, il tempo fugge veloce alle Cassinelle come altrove. Un mattino, facendo i conti, Capra si avvide che sette anni e quattro giorni erano passati da quando aveva incontrato la Morte sui sentieri della Selva. Mentre stava facendo tale spiacevole constatazione, si presentò a lui un maggiordomo con una magnifica livrea ricamata in oro, fece un profondo inchino e pregò il medico di recarsi a Lugano dove una nobile straniera giunta il giorno prima, la marchesa di Sonnolungo, aveva bisogno dei suoi servigi.

Così vicino al termine fatale, Capra non aveva più nessuna voglia di darsi alla medicina; accettò tuttavia per carità, salì sulla sua mula e seguì il maggiordomo. A Lugano venne introdotto in una bella camera nel mezzo della quale si trovava un letto di parata. Con suo grande stupore, per la prima volta dopo sette anni, egli non vide la Morte nè ai piedi del letto, nè al capezzale. Le cose s'ingarbugliavano: che mistero era quello?

Il medico si avvicinò, si chinò sulla paziente, ma non ebbe il tempo di dire: ahi! Con una mano di ferro, la nobildonna lo afferrò, lo alzò di peso e lo distese sul letto al posto che essa occupava un istante prima. Poi si piantò ritta a capo del letto: la sedicente marchesa di Sonnolungo altri non era che la Morte.

Ecco il nostro povero Capra senza scampo, senza forza, senza la minima voglia di discorrere. Sentiva troppo bene che più nessuna erba dei campi gli avrebbe potuto giovare: nè la salvia nè la bistorta! Ma egli si rassegnava.

"Ti ho dato sette anni e sette giorni", disse la Morte. "Ancora tre giorni e dovrai seguirmi".

"È il nostro contratto", rispose il medico. "Che il Signore mi accolga nel suo paradiso, benché non sempre io l'abbia servito come avrei dovuto. Il rimprovero è solo per me; quanto a voi, signora Morte, voi siete giusta".

La Morte passò di colpo ai piedi del letto: "Dal momento che tu prendi la cosa dal lato buono, alzati e parti. Vedo che con te posso andar d'accordo: lavoreremo quindi insieme per altri sette anni e sette giorni. Dopo si vedrà". "Non ho mai ricusato il lavoro. Arrivederci dunque, signora Morte, al capezzale dei nostri malati!".

Capra salutò e uscì, perché non aveva davvero troppa voglia d'indugiare in quella casa che per poco non gli era stata fatale. Staccò la mula e, tutto contento, tornò alle Cassinelle.

Tutto ha un fine, naturalmente, come dicevano i nostri vecchi. Un giorno o l'altro cadremo. Ma intanto, con un po' di rassegnazione e di speranza, si va, si va, si tira innanzi!

 

Louis Delcros

Ore in famiglia, 1960


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