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La conversione del conte Rodolfo

Il conte Rodolfo di Luino era l'abbiatico del terribile conte Ruggero, l'abominevole tiranno che terrorizzò il Malcantone e il cui triste ricordo si ritrova in parecchie leggende trasmesse dai nostri padri. In realtà il conte Rodolfo non era forse cattivo, ma gli esempi del nonno defunto non erano stati tali da far di lui un giovane buono; a ventiquattro anni egli era un signorotto arrogante, autoritario, avido di piaceri, senza riguardi per gli altri. La povera gente diceva di lui:

"I cani non generano gatti, e quello lì sarà un altro Ruggero!", poi si facevano il segno della croce pregando Dio di proteggerli.

Tra le cose che la gente del paese temeva in lui, c'era il suo smodato gusto per la caccia. La caccia era la sua grande passione, non tanto per la preda eventuale, quanto per la gioia che si prova all'aria aperta: gli piaceva scorrazzare a cavallo attraverso i campi, a testa scoperta e con i capelli al vento, al primo chiarore dell'alba, quando la rugiada imperla ancora le foglie, quando gli uccelli cominciano a cantare, quando le campane si svegliano nei campanili lontani; avere davanti a sé lunghe ore di cavalcate e di avventure; fino al momento in cui il sole al tramonto imporpora l'orizzonte, era per lui poesia e libertà. Non pensava ai danni causati ai contadini da lui e dai suoi compagni, e fingeva di non udire le imprecazioni che accompagnavano il suo passaggio.

Una domenica d'agosto, appena svegliato, corse sulla terrazza del castello e suonò a lungo il corno per chiamare i suoi amici. Una mezza dozzina di giovanotti non tardarono a giungere, ed egli subito li stimolò:

A cavallo, senza perder tempo, e a caccia! Una volta ancora perderete Messa, ma ve ne confesserete a Natale, quando l'inverno ci costringerà a rimanere a casa!

Gli altri erano giovani come lui e come lui più portati a goder la vita che ad adempiere i loro doveri verso Dio. Partirono a briglia sciolta e raggiunsero il Malcantone, allora rinomato per i suoi cervi e i suoi caprioli. Scorrazzarono come pazzi attraverso campi e boschi, ma la frescura dei mattini d'agosto si dilegua in fretta: di li a poco il respiro della terra si fece caldo, i cavalli furono bianchi di sudore, stanchi anch'essi; la selvaggina sembrava sentire il peso del giorno e non si faceva vedere. A mezzodì i cacciatori non avevano ancor preso niente; per far riposare le loro cavalcature e per ristorarsi un poco si sedettero per un'ora nel bosco tra Breno e Aranno.

Terminato l'allegro spuntino, risalirono in sella per continuare la caccia; ma le cose andarono male. A poco a poco il cielo si coprì di nuvoloni accavallantisi gli uni sugli altri: bianchi, grigi, neri. Il tuono rumoreggiò in lontananza, poi s'avvicinò con un fragore assordante. Gli uni dopo gli altri, i giovani rinunciavano alla caccia; vedendo arrivarsi addosso un temporale spaventevole, con il volto sferzato dal vento caldo che precede gli uragani, essi spronavano i loro cavalli in direzione di Luino nella speranza di giungervi abbastanza presto da poter mettersi al riparo.

Ma il conte Rodolfo si ostinava; aveva fatto levare un capriolo e non voleva capitolare. Nonostante il vento che gli spiattellava i capelli sugli occhi, nonostante le raffiche di pioggia e di polvere, egli continuava a spronare il suo cavallo. Ma d'improvviso scoppiò un formidabile colpo di folgore: davanti al cavaliere un enorme faggio si spaccò in due. Il cavallo, spaventato, abbozzò un'impennata, fece uno scarto, poi sfrecciò via portando il conte non importa dove attraverso i campi, tra i rombi di tuono che raddoppiavano e dell'acqua che si abbatteva come un ciclone.

Quando il cavallo, esausto, si fu calmato, il cacciatore non seppe dove si trovasse e si guardò attorno per cercare un rifugio. L'unico tetto ch'egli scorse fu quello di una chiesetta isolata e circondata di grandi alberi. Ora il tuono si allontanava, ma la pioggia cadeva sempre a torrenti. Il conte Rodolfo si affrettò verso quel rifugio provvidenziale, attaccò il cavallo a una pianta e, spingendo la porta, entrò nella chiesetta.

Egli non osava troppo farsi avanti, sentendosi in fallo agli occhi di Dio in quella domenica. E a un tratto si senti prendere da una grande stanchezza; si accorse di essere estenuato e che stentava a stare in piedi. Dopo aver fatto un segno di croce, andò a sedersi direttamente sul pavimento di sasso in un angolo buio. Con le gambe a terra, le spalle appoggiate al muro, rimase lì immobile senza saper bene se dormisse o se fosse sveglio. Aspettava la fine del temporale, ma la pioggia continuava a battere monotona sul tetto e sugli alberi.

Il conte Rodolfo riposava da qualche tempo quando vide socchiudersi una porticina ch'egli non aveva notata prima: la porta della sacrestia. Ne uscì un vecchio prete rivestito dei paramenti sacerdotali: era di una magrezza estrema, o meglio scarnificato. come può esserlo uno scheletro. Avanzò di tre passi, guardò, sembrò non veder nessuno, emise un profondo sospiro e disparve dietro la porta. Un momento dopo egli la riaprì, avanzò di nuovo, emise lo stesso sospiro di delusione e di nuovo se ne andò.

Dev'essere un prete defunto, pensò il conte, una povera anima del purgatorio. Ho sentito dire che chi ha accettato di celebrare Messe ed è morto prima di averle celebrate, ritorna per adempiere a quest'obbligo. Una volta sapevo servir Messa ma ora l'ho dimenticato. Tuttavia, se quel pover'uomo ritorna, mi presenterò ad offrirglì i miei servigi.

Il prete ricomparve, ma il conte si sentiva i piedi pesanti come piombo e non riusciva ad alzarsi. Il prete tornò così parecchie volte, e il giovane si sentiva commosso poiché, ad ogni nuova apparizione, il cappellano sembrava sempre più angustiato. L'emozione gli ridonò le forze, e, finalmente, egli poté alzarsi, uscire dal suo angolo e offrirsi per servire la Messa.

Il vecchio prete gli dimostrò grande gioia, grande riconoscenza. Disse che da oltre cento anni egli tornava di notte in quella chiesetta senza aver mai trovato alcuno. Stavolta la sua Messa poté esser celebrata e, quando fu terminata, egli si voltò verso il conte Rodolfo e gli chiese che cosa avrebbe potuto fare per lui:

Siate benedetto per il servizio che mi avete reso! E da me, figliuolo, c'è qualcosa che voi bramereste?

Padre mio, rispose il conte, io non bramo nulla. Ho al mio castello tutto ciò che posso desiderare: servitori, vestiti, vini, viveri; ho lo scrigno pieno di denaro, cavalli nella scuderia, cani nel canile. Non desidero che una cosa...

Quale, figlio mio?

Padre, io vorrei, da questa sera, conoscere l'ora della mia morte. I miei amici pretendono che io non abbia più religione di quanto i miei cani abbiano stivali, ma non è vero. Non sono devoto, ma non ho mai dimenticato le lezioni di mia nonna, la contessa Gertrude; e non vorrei morire senza essere in grazia di Dio. Vorrei quindi conoscere l'ora del viaggio dal quale non si ritorna, in modo da aver il tempo di riconciglìarmi con il Signore.

Ebbene, sappiatelo per non dimenticarlo figlio mio: voi morirete tra quarant'anni, giorno per giorno, mezzanotte per mezzanotte!

Detto questo, il prete disparve...

Quarant'anni! Agli occhi di un giovane sembra questa una somma di giorni tanto lunga da parer senza fine. Quando si ritrovò solo, il conte Rodolfo fu al colmo della gioia.

"Dividerò il mio tempo in due parti," si disse, "per vent'anni voglio continuare la dolce vita che conduco; poi avrò vent'anni per tornare a Dio, fare penitenza e fors'anche morire in odore di santità come è capitato ad altri."

Ma i primi venti anni passarono al galoppo, come una giornata di caccia un po' lunga. E Dio sa come volano le ore quando si è a caccia! Tanto che, giunto a metà del suo tempo, il conte Rodolfo non ebbe la minima voglia di rinunciare alla sua allegra vita, né di cambiare il suo modo di agire riguardo a Dio e riguardo al prossimo. Sapeva di avere ancora vent'anni di vita: non era troppo darli alla penitenza?

"Mi pentirò dei miei falli durante dieci anni," disse, "in dieci anni se ne

possono sentire Messe, e recitarne rosari!"

Ma i dieci anni ch'egli si era accordati passarono come un lampo, come le stelle filanti che solcano a volte il cielo le notti d'estate. Aveva tante cose da fare, tanti viaggi, tante feste, tante cacce! Pensò che per la penitenza due anni sarebbero stati sufficienti: ci vuol tanto per render conto a un sacerdote del male fatto, per battersi il petto e ricevere l'assoluzione?

Poi si accordò un anno... Poi un mese... Poi una settimana...

Quell'ultima settimana egli si trovava nella sua proprietà di Castelrotto; dovette ricevervi degli amici, organizzare ancora feste e cacce; in mezzo ai divertimenti egli si riprometteva di pensare a sé l'indomani, di preparare l'ora della sua comparsa davanti a Dio. Ma si trovò, il mattino del giorno designato, senza aver ancora fatto la sua confessione suprema; ciò non lo trattenne dal partire ancora per la caccia con i suoi invitati.

Tuttavia, quando tornò la sera, il suo sguardo era turbato e il suo volto contratto. Si avvicinò a sua madre e, con voce rotta, la supplicò di mandar a chiamare il curato della parrocchia.

Ma, rispose la madre, tu non sei malato. Che cosa vai immaginando? Vieni a sederti, vieni a cena. Guarda, ho fatto sturare il nostro miglior vino del Piemonte, e ci ho tenuto a cucinare io stessa questo succulento cosciotto di capriolo.

No, ve ne supplico, mandate subito a chiamare il prete! Sto per morire, mamma, e la morte non ha fame.

Ma sua madre, i suoi parenti, i suoi amici, gli stessi servitori non gli danno retta. Continuano a prendere le sue insistenze per fantasie provocate da una depressione mentale, le sue suppliche come frutti di un cervello stanco ed eccitato. Lui, livido, i lineamenti sconvolti, non sa più far altro che errare da una sala all'altra. Si vede come un uomo in procinto di annegare, che batte l'acqua con le braccia, senza la minima pietra su cui appoggiarsi, il minimo ramo al quale aggrapparsi.

Finalmente i suoi s'inquietano e mandano un uomo in parrocchia. Il conte si lascia cadere nel suo seggiolone di legno scolpito, accanto al fuoco: ora non vive più che per aspettare. E il tempo passa, passa nell'angoscia. Il conte si alza, fa tre passi, torna a sedersi, tremante, la mente smarrita, il cuore in subbuglio. Tutto ciò che sa è che mancano ormai solo venti minuti a mezzanotte.

Finalmente il servitore torna. Ma non ha con sé il parroco che ha dovuto recarsi da un moribondo. E' lontano dalla canonica, fuori in campagna, giù verso

la Madonna del Piano...

Balbettante, il conte Rodolfo si dispera. Due servitori vengono ancora spediti a Biogno e a Bedigliora. Ma mezzanotte è ormai vicina: ancora un quarto d'ora, ancora dieci minuti... Benché i servitori siano partiti a cavallo, è troppo tardi, non è possibile ch'essi possano ricondurre un prete prima di mezzanotte. Che cosa escogitare, che fare, per arrestare il tempo? Niente da fare, niente... Col sangue raggelato, il volto verde di terrore, senza polso, senza voce, il conte Rodolfo tiene gli occhi fissi sull'orologio della sala: non mancano che tre minuti a mezzanotte... Ne mancano solo due, solo uno... L'ultimo istante arriva: l'orologio sta per

suonare...

In quell'istante, un vigoroso nitrito fece trasalire il conte Rodolfo. Egli si svegliò ancor tutto emozionato, tutto scosso dal suo sogno; poiché aveva sognato nell'umile chiesetta dove, rotto di fatica, esausto, si era addormentato sul pavimento. Mentre il suo cavallo manifestava rumorosamente la sua impazienza, egli rimaneva fisso a quel spaventoso momento, vivendo ancora ciò che aveva creduto realtà. Era oppresso, come da una cappa di piombo, dall'idea che la vita passa come un sogno, e che la morte può sorprenderci quando è troppo tardi per pensare a Dio. Allora egli si raccolse davanti all'altare, così modesto, di quella povera chiesetta di campagna:

Mi conosco, io che non faccio niente a metà. Se Dio mi accordasse ancora quarant'anni di vita, io vivrei tutto questo tempo alla stessa guisa: non avendo gusto che per le feste e i divertimenti, per tutto ciò che allontana dal Signore, sarei trascinato in questo movimento come lo si è alla caccia; aspetterei l'ultimo minuto per ritornare sulla via diritta... Grazie! ho già sragionato troppo. A partire da quest'ora voglio cambiar vita: è cosa decisa, è cosa giurata.

Questo giuramento lo fece davanti al crocifisso appeso sopra l'altare. Il temporale era cessato, e non si udiva più fuori che un lieve sgocciolio di foglie. Il cielo 'era tornato limpido e la luna dava tutta la sua luce. Il conte Rodolfo rimontò in sella, tutto assorto nei suoi pensieri; all'uscita del bosco seppe ritrovare la sua strada e ritornò al castello, dove si era seriamente in pensiero per lui.

Il conte Rodolfo mantenne il giuramento che aveva fatto davanti a Dio. A partire da quella notte, egli visse secondo la sapienza del cuore; e, a partire da quella notte, i terrieri e i boscaioli del Malcantone non ebbero più a soffrire della tirannia dei conti di Luino.

Louis Delcros

Vita femminile, 1965; Fiabe e leggende del Ticino, Vol. 1 Sottoceneri, Centro didattico cantonale, Massagno


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