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Il mulino esecrato

A tre quarti del corso del fiume Capriasca, oltrepassato Tesserete, sul versante sinistro; in un'ampia gola incassata tra due alture, sorgeva un mulino ad acqua.

Estesa gora e robusta cateratta con forte caduta.

Presentava due grandi ruote a pala di legno di larice all'esterno, sul cui asse ne poggiava un'altra dentata interna, che azionava i cilindrici fuselli, che a loro volta girando velocemente spingevano le grosse macine, una fissa e l'altra mobile, sotto le tramogge a forma di tronco di piramide quadrangolare, cave e capovolte, munite delle battole. La mola di sinistra, con cassa e buratto sottostante, era destinata al granoturco, al miglio e al panico, quella a destra alla segale, al grano saraceno.

Vantava anche una pesta per l'orzo, un frantoio per le castagne secche per ricavare la dolce e fine leccornia, il popolare "panisciöo", e un dispositivo per tritare minutamente le ossa degli animali e ottenere un eccellente mangime per i volatili da cortile.

S'interessava di tutto una donna burbera e pingue, sulla cinquantina, che sollevava sacchi e pesi come fuscelli, avviava e arrestava macchine con bravura. Era capitata in Pieve non si sa da dove e come e non aveva, dato il suo pessimo carattere, mai trovato nessuno che la sposasse. Occupava una cucina e una camera attigua, che teneva come gioielli.

Non essendovi altro stabilimento a quell'epoca nei dintorni e data la forte coltivazione dei cereali e l'abbondante raccolta di castagne, in diversi anni di raggiri, di soprusi, di furti e d'usura patentata, era divenuta assai benestante.

Non prestava la sua opera senza aver ricevuto in anticipo l'ammontare relativo. Non essendo in possesso di stadera, i clienti dovevano accettare la quantità di farina che loro veniva preparata. Quando poi si trattava di prelevare la molenda, questa era esagerata sotto ogni aspetto. E guai a chi avesse voluto sollevare critiche o affacciare reclami o sostenere i sacrosanti diritti di onestà e precisione! Scatenava tutte le sue furie, sciorinava il suo vile vocabolario e minacciava di non più procedere alla macinazione per sempre.

Allorquando la siccità e la grandine facevano sentire sull'estesa campagna i loro malefici effetti ne godeva e ne approfittava per fornire ai colpiti a prezzi favolosi quanto loro difettava, giacché disponeva di elevata scorta. In caso di mancato pagamento si impossessava dei loro beni senza rimorso alcuno.

Con questo disonorevole e prepotente tenore di vita, tirò avanti lungo tempo, segnata a dito da tutti per la sua tirchieria e durezza di cuore.

Una sera di dicembre, mentre fuori nevicava a larghe falde tutto avvolgendo, udì battere lieve alla porta. Corse ad aprire e si trovò di fronte un povero vecchietto, tutto curvo, vestito modestamente, completamente inzuppato e tremante per il freddo, che con accento gentile le disse:

"Fatemi il favore, buona donna, di ospitarmi per questa notte. Mi accontento di un modesto giaciglio e, se possibile, datemi anche un pezzo di pane con companatico. Vengo da lontano e da diversi giorni non mi concedo riposo e non mangio! Chi semina bene raccoglie prosperità e fortuna!".

C'era in quella richiesta tanto calore da commuovere il più ostinato dei mortali. La mugnaia andò su tutte le furie e inveì:

"Razza di parassiti, di fannulloni, veri mangiaminestre, scrocconi! Andate avanti fino al villaggio qui vicino: là ci sono numerose locande dove potete trovare quanto vi occorre, qui si fatica e si lavorano granaglie e non ci sono né letto né viveri!".

"Il mio augurio sincero e profondo" proferì il vegliardo "è che possiate operare così per lunghe ere, ma ora abbiate pietà di me, soccorretemi in nome di Dio e non scacciatemi con questa neve che aumenta a vista d'occhio!".

La mugnaia, fredda come il marmo, sorridendo sarcasticamente esclamò:

"Oh, Iddio non mi ha mai dato finora una mano per muovere i miei congegni, caricare e scaricare i pesanti involucri!".

Gli indicò minacciosa l'uscita, con gli occhi fuori dell'orbita: "Se non ti decidi ad andartene, penserò io a cacciarti!".

Visto che quello faceva il sordo e andava invocando misericordia, d'un balzo afferrò un grosso pezzo di legno venutole alla mano e si accinse a calarlo con veemenza sulle spalle del mendico.

Improvvisamente lo vide tirarsi indietro e assumere un nuovo aspetto.

Non era più l'anziano che la fronteggiava ma un bel giovanotto con meravigliosi occhi che sprigionava una vivida luce e che con tono soave l'apostrofò:

"Hai voluto respingere il povero, offeso il bisognoso, hai costretto Dio ad andarsene dal tuo cantiere. Per la grave onta di cui hai voluto macchiarti, i tuoi meccanismi qui dentro, d'ora in avanti, non funzioneranno più!", E detto questo scomparve in una vivida nube lasciando la gretta mugnaia con il randello abbassato, esterrefatta.

Furono convocati i più esperti meccanici che spesero attorno alle trasmissioni intere giornate. Si formularono ipotesi e supposizioni, si escogitarono trovate, si smontò e si ricostruì ma invano, tutto sembrava incatenato e non poté mai essere rimesso in azione. La mugnaia desolata, a poco a poco senza più occupazione né entrata, in breve liquidò tutto il maltolto e il mulino gradatamente, con tutto il contenuto, cadde in rovina.

Dell'antica e solida costruzione rimangono oggi pochi ruderi consistenti in bassi muri anneriti dal tempo e diroccati, avvolti dal luppolo, dall'edera e dalle vitalbe, regno dei rettili, dei gufi e delle civette.

 

Plinio Savi

Ore in famiglia, 1978


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