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Il miracolo del pane

Nessuno fuor che la vecchia Disolina sapeva raccontare la leggenda del pane benedetto, arricchirla di particolari, accompagnarla con gesti significativi e occhiate che esprimevano tutto un mondo misterioso. La voglio ripetere così, come la raccolsi io stessa dalle sue labbra tremanti:

"Benedetta era una brava contadina che lavorava a giornata perché il suo podere era piccolo ma la famiglia era grande; si stentava la vita essendo il guadagno del padre insufficiente a saziare undici bocche, perciò ella andava dai possidenti facoltosi a offrire il lavoro delle sue robuste braccia, il più sovente in cambio di ben poca moneta, ché anche allora i poveri ingrassavano i ricchi. Ma la nostra Benedetta, semplice e laboriosa, non era usa indagare sulle ingiustizie del mondo e sull'egoismo degli uomini.

Colui che le dava più pane era Fortunato della Monda che, per non smentire il suo nome, avendo fatta fortuna in America, si era comperato per pochi ducati un buon terzo della montagna di Avigno, al di là della Tresa, su territorio italiano. Egli vi mandava in inverno gli uomini a far legna e le contadine a far strame che veniva poi caricato su barconi per il tragitto del fiume.

Benedetta vi si recava quindi verso novembre e ne aveva per un mese di rastrellare da cima a fondo tutto un dosso di monte, ch'era da lasciar liscio e pulito come un guscio d'uovo. Conosceva palmo per palmo quelle selve ombrose dai castagni secolari, tappezzate di muschio, ove spuntavano certi funghi porcini che erano meraviglie. Un giorno Benedetta era partita più tardi perché di notte la Bionda aveva dato alla luce un bel vitellino. Contenta per l'abbondanza di quella giornata si avviò con la gerla, benedicendo in cuor suo la Provvidenza. Non dimenticò d'infilare nella tasca una pagnotta di pane casalingo che era il suo pasto usuale. Sul ponte della Lisora incontrò Frate Francesco che veniva per la solita questua e gli disse tutta gioiosa:

"Fatevi dare dalla Celesta (che era la figlia maggiore) doppio staio di segale, perché oggi, per via del vitello, sono ricca!".

"Buon per voi, Benedetta, Iddio ve lo renda in tanta salute e vi mandi giorni migliori!".

L'augurio dell'umile fraticello le fece bene: guardò dal basso la montagna chiazzata ancora di giallo e marrone, quella da ripulire, pensò a tutti i passi, sbalzi e sgobbate che l'aspettavano per tutta una giornata. Vi pensò, ma senza sgomento: era felice di poter lavorare. Quel giorno che sembrava tutto bello e facile, la voce della Tresa, conciliante e armoniosa, pareva cantare una melodia che era una promessa.

Benedetta allungò il passo, era in ritardo; alla Madonna del Piano, quando entrò nella barcaccia che la portava all'altra sponda, seduta sulla gerla, le sembrava di salpare su di una nave, verso terre ignote, come l'America di Fortunato della Monda. Certo in quel giorno sognava un poco, ma lavorò di buona lena sino a mezzodì.

Quando le campane sonore di Sessa e quelle argentine di Castelrotto annunciarono l'ora della siesta, seduta sul ciglio del sentiero, ella estrasse la sua pagnotta ancora fragrante: stava per addentare quel buon pane nero, quando vide venire dal sentiero un cane che faceva pietà e paura: aveva il pelo arruffato che lasciava trasparire chiazze brune, purulente, teneva la coda e le orecchie pendenti, aveva gli occhi cisposi e dalla bocca spandeva una bava che colava a terra. Si trascinava a mala pena sulle gambe stecchite e guardava la donna con certi occhi smarriti e quasi umani; non emetteva un gemito ma tutto in lui gridava la fame.

Benedetta s'intenerì a quello spettacolo, non sentì più lo stimolo della fame, ma piano piano si mise a sbocconcellare la pagnotta sino all'ultima briciola e le metteva una gioia in cuore il vedere la povera bestia divorare quel ben di Dio. Il cane continuò la sua strada e la donna lo stette a guardare finché scomparve nella macchia; le parve che avesse smesso quell'andatura incerta e stanca, anzi da lontano lo vide dimenare la coda per il piacere.

Allora la povera donna, che aveva dietro di sé tante ore faticose, per calmare quel vuoto nello stomaco, prese il fagotto di castagne che aveva raccolto al mattino, quelle ultime che rimangono nascoste nelle buche sotto lo strame e che si danno ai maiali; ne scelse di bianche, sanissime, ne rosicchiò sì da sentirsi soddisfatta e continuò di poi il suo lavoro fino a ora tarda.

La notte seguente sognò di trovarsi sulla montagna con la gerla ricolma di pane nero mentre attorno a lei stavano tanti cani randagi che doveva sfamare. Quand'ebbe finito, nell'atto di rimettersi la gerla in spalla, s'accorse che pesava immensamente; vi guardò dentro e vide che le sue pagnotte di

pan di segale erano diventate d'oro massiccio. Si svegliò che sudava per la fatica.

Il mercoledì seguente era giorno di mercato a Luino; ella vi si recava sovente a vendere le uova fresche e certi formaggini di capra molto ricercati. Anche quel giorno preparò il suo paniere e iniziò il lungo viaggio: quasi due ore a piedi per guadagnare qualche "palanca".

Era di buon mattino e una fitta nebbia copriva la Tresa; solo in lontananza spiccava la massa candida e maestosa del Monte Rosa. Faceva già freschino e Benedetta camminava frettolosa per riscaldarsi. Giunta a un crocicchio di strada, con sua grande meraviglia vide spalancato il cancello che dava al maniero di Alto Sasso. Per degli anni, ogni mercoledì ella passava davanti a quel muro alto, protetto da acuti pungiglioni, che faceva da cinta a un grande parco, dove in sommità sorgeva un palazzo. Si domandava tante volte perché tutto era caduto in abbandono; il magnifico cancello in ferro battuto era arrugginito, i viali zeppi di gramigna, le statue antiche e le vasche delle superbe fontane ricoperte di muffa e rampicanti. Un dominio che doveva essere una residenza principesca ridotto in quello stato.

Ma quel giorno i suoi occhi videro bene: tutto era ripulito e rimesso a nuovo, il cancello era spalancato e al limitare troneggiava un magnifico cocchio tirato da quattro cavalli. Il cocchiere in livrea verde scuro e guanti bianchi stava per chiudere il cancello e salire in serpa.

Benedetta stette a guardare incuriosita; nel cocchio doveva sedere, senza dubbio, una coppia principesca. Guardò e vide un uomo di mezza età che la fissava con certi occhi, pieni di meraviglia. Non ebbe il tempo di proseguire la sua strada che il signore scese dal cocchio e la raggiunse:

"Buona donna, non temete, io vi ho riconosciuta: sono il principe di Alto Sasso che da molti anni errava per valli e monti trasformato in cane randagio. Voi siete colei che mi ha liberato dal malefizio, privandovi dell'umile refezione per sfamarmi!".

"È mai possibile, voi quel cane tignoso che divorò la mia unica pagnotta nel bosco?".

"Precisamente, e vi spiegherò tutto: io fui sempre un principe crudele e egoista; i miei cavalli e i miei cani erano nutriti di pane bianco, ma se veniva un mendicante alla porta io lo facevo scacciare senza misericordia!

Un giorno passò dal castello un pellegrino scalzo e affamato, andava a piedi alla Madonna del Sasso; anch'egli come gli altri trovò un cuore duro e un rifiuto. Ma il pellegrino era un santo uomo e mi fece punire da Dio, che permise fossi tramutato in un cane ulceroso, condannato a trascinare la sua miseria sino al giorno in cui avesse incontrato la donna povera che gli avrebbe offerto l'unico tozzo di pane: quel pane benedetto impastato da mani oneste e laboriose. Ecco perché, dopo il nostro incontro nella selva, io ripresi la forma primiera e sono rientrato al castello abbandonato da tanti anni. Avrete il premio della vostra buona azione!".

Fece salire la contadina nel cocchio e la condusse a vedere le meraviglie del castello; Benedetta ripartì più tardi con una borsa ricolma d'oro: da quel giorno la sua famiglia conobbe l'agiatezza".

 

Maria Cavallini Comisetti

Almanacco della gioventù della Svizzera Italiana, 1951


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