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Caduto nella Magliasina

Circa diciott'anni fa, quando cominciavo a far conoscenza con le strade ticinesi, che ho percorso quasi tutte a piedi, capitai un pomeriggio dal leggendario Don Ferregutti, un prete robusto dalle spalle quadrate che sembravano tagliate con la scure in una quercia massiccia e dagli occhi pieni d'arguzia e di bontà. Mi fece entrare e mi offrì un "cichett" di grappa nostrana. Si parlò del più e del meno, quando a un certo momento egli aprì un cassetto e mi mostrò uno strano oggetto che poteva essere una striscia di cuoio o una vecchia cotenna.

"Lei che ha visto tante cose" mi chiese "potrebbe dirmi che cos'è?". "Non ci si deve vergognare" dissi "di confessare la propria ignoranza: non lo so".

Senza rispondermi, egli accostò il misterioso oggetto a una candela che aveva appena acceso. Sotto l'effetto del calore, la cosa, fin allora flaccida, cominciò ad attorcigliarsi e prese vagamente la forma di un cavaturaccioli. "Ci sono" esclamai "è una vecchia coda di maiale!".

"Forse ha ragione. Tuttavia, se si vuol credere alla leggenda, si tratta della coda di un porco e anzi del re dei porci, ma non di un maiale. Senta, dal momento che lei scende da Magliaso, mi permetta di accompagnarla un poco sulla strada di Pura e, cammin facendo, le racconterò questa storia".

Di lì a dieci minuti, dopo una visita in chiesa, partimmo e il buon curato cominciò:

"Non le dirò male della mia parrocchia. Anzitutto perché vi sono nato e presto andrò a frammischiare le mie ossa con quelle dei miei antenati, in questa vecchia terra malcantonese dove l'uomo è rude e di carattere indipendente, ma gioviale, sincero e con il cuore in mano. Poi perché la mia parrocchia è una buona parrocchia e, se è vero che mi capita di sgridare dal pulpito le mie pecorelle, in fondo sono contento di loro. Ma devo pur confessare che la mia parrocchia non è più in tutto e per tutto quello ch'essa era ai tempi del bravo curato X ... ".

Mi scusi il lettore! Don Ferregutti mi citò senz'altro il nome del curato, ma la mia ingrata memoria non l'ha ritenuto. Egli continuò:

"Quello era dunque un prete secondo il cuore di Dio, pio, caritatevole, di una semplicità squisita e di una bontà così commovente che i suoi parrocchiani avrebbero preferito rompersi una gamba piuttosto che arrecare il minimo dispiacere al loro pastore. Naturalmente la vita morale della parrocchia ne subiva l'influsso. Nessuno avrebbe rubato una fascina di legna al vicino, né portato via una rapa da un campo. Gli uomini stessi avevano quasi perduto l'abitudine di bestemmiare, e quando avevano qualche contrarietà sul lavoro le loro esclamazioni non oltrepassavano un " Santo Cielo!" o "Cara Madonna!": solamente il tono, privo di soavità, lasciava capire che non si trattava di una giaculatoria. La domenica andavano all'osteria ma non vi bevevano più di due bicchieri di vino, e quando tornavano a casa non battevano mai la moglie. Cosa questa tanto eccezionale a quei tempi da esser passata in proverbio e, per indicare che una donna era fortunata, si diceva nella regione ch'essa era "felice come le donne di Curio".

Il diavolo si struggeva alla vista di quella parrocchia: aveva un bell'andare e venire, girare e rigirare, spiare le occasioni, non c'era per lui niente da fare o ben poco. In mancanza di meglio cercava di far commettere qualche peccato di maldicenza alle vecchiette che chiacchieravano davanti alla porta della chiesa, o alle massaie che s'incontravano alla fontana; qualche peccato di gola ai bambini cui la mamma aveva lasciato il vaso del miele a portata di mano; qualche peccato d'impazienza ai pastori che non riuscivano a radunare le loro capre. Cose insomma che non potevano alimentare gran che il fuoco dell'inferno! Quanto a prendersela con il curato, il diavolo non se la sentiva: con un segno di croce il sant'uomo lo metteva in fuga; con tre gocce d'acqua benedetta gli bruciava la pelle come un ferro rovente.

Visto il caso disperato il diavolo se la prese con l'asino del curato. La parrocchia era piuttosto estesa e d'altra parte bisognava pur recarsi di quando in quando ad Agno o a Lugano: per i suoi viaggi il buon curato aveva comperato un somarello. Il diavolo giocò alla povera bestia tutti i tiri che si possono immaginare: frammischiava rovi al suo fieno e spine alla biada, gli ronzava attorno alle orecchie come un maggiolino oppure svolazzava davanti ai suoi occhi come un pipistrello, lo faceva inciampare nelle pietre e lo incitava con un pungolo: insomma lo tormentava più che non avrebbero potuto fare tutti i monelli del Malcantone assieme. Ma l'asino sopportava tutto, perché era un buon asino, paziente come il suo padrone; si limitava ad abbassare le orecchie arricciando le narici.

A quei tempi, la vigilia di Natale si dava sempre doppia razione alle bestie, in onore di quelle che avevano riscaldato con il loro fiato il Bambino Gesù nella greppia di Betlemme. Poi un po' prima di mezzanotte si andava a prendere in processione, presso la famiglia che si era incaricata di fornire il panettone ai poveri della parrocchia, le rustiche statuine del Bambino Gesù, della Madonna e di San Giuseppe: si portavano in chiesa dove un presepio era stato preparato con amore i giorni precedenti; si disponevano piamente le sacre immagini al loro posto tradizionale, e la Messa di mezzanotte cominciava, nell'alternarsi dei canti liturgici e popolari.

Quell'anno, non appena calata la notte, l'asino del curato si era messo davanti alla sua mangiatoia, rallegrandosi in anticipo della doppia razione, forse con un po' di golosità. Quando a un tratto, volgendo la testa, vide presso di sé il sagrestano.

"Caro asinello" gli disse quello senza preamboli "dovresti proprio rendermi un servizio stanotte. Ho fatto tardi con i preparativi in chiesa, e mi resta ancor molto da fare: vedo che non potrò accompagnare la processione. Allora ho pensato che potresti forse sostituirmi".

I nostri vecchi dicevano che nella notte di Natale le bestie, quelle almeno che furono rappresentate nella grotta di Betlemme, ricevono il dono della parola. L'asino lo aveva sentito dire, e aveva pensato che doveva pur esserci qualcosa di vero. Sostituire il sagrestano alla processione, non doveva poi essere cosa tanto difficile. Allora, perché no?

"Tu dovrai solamente" riprese il sagrestano "cantare 'Aaamen!' ogni volta che i parrocchiani smetteranno di cantare. Come vedi, non è difficile. Prova un po'! ".

L'asino non si fece pregare e si mise a ragliare con convinzione.

"Bene! Benissimo!" disse il sagrestano. "Hai una voce magnifica, dal volume più ampio della mia e dal tono più alto. Tutti saranno contenti. Posso quindi contare su di te? ".

L'asino abbassò le sue grosse orecchie in segno d'assenso. Al pensiero di cantare una volta in una cerimonia pubblica, si sentiva correre un brivido di fierezza su per la schiena; non avrebbe ceduto il suo posto per nulla al mondo, neanche se gli avessero offerto di alloggiare nelle scuderie dell'imperatore. Eppure... Avrebbe dovuto diffidare, ricordando i tiri che il diavolo gli aveva già giocato. Perché se messer diavolo aveva la facoltà di prendere qualunque forma di animale, maggiolino o pipistrello, non doveva tornargli più difficile assumere aspetto umano e prendere i lineamenti di un sagrestano dai capelli brizzolati.

Ma l'asino era troppo occupato a farsi bello per pensare a queste cose: si scrollava come un cane uscito dall'acqua, per far cadere le pagliucole dal pelo; si leccava, come un gatto dopo aver mangiato il lardo; stropicciava gli zoccoli, come se avesse voluto renderli più lucenti dell'ebano. A un tratto udì suonare; allora si ripulì per bene il muso tra i piedi, si scrollò di nuovo, si leccò ancora, e finalmente con la testa alta e a passo sostenuto si diresse verso la chiesa.

Ma era in ritardo, per essersi voluto fare troppo bello, e la processione stava già rientrando in chiesa, dalla porta aperta si scorgeva l'altare dove il sagrestano terminava di accendere le candele. Allora l'asino prese il galoppo, come se un tafano lo avesse punto, e si lanciò in mezzo alla processione. Orecchie, zampe, coda in aria, cominciò a ragliare a squarciagola per annunciare il suo arrivo.

Fu una confusione peggiore di quella della torre di Babele! Molti credettero che fosse il diavolo in persona sotto le sembianze dell'asino del loro curato: le donne gridavano, i bambini urlavano, qualche vecchietta cadeva in ginocchio facendosi il segno della croce. Alcuni uomini risoluti afferrarono l'asino, gli uni per la criniera, gli altri per il muso; ma quello non la smetteva di ragliare, per spiegare che era venuto a sostituire il sagrestano. Di fronte alla sua cocciutaggine e temendo che volesse entrare in chiesa a mettervi il disordine, ci si scagliò su di lui a colpi di bastone, a colpi di zoccolo, a colpi di lanterna; la povera bestia cercava di evitare i colpi, ma invano poiché ne arrivavano da ogni parte, come una grandinata. Allora l'asino cominciò a tirar calci, ciò che portò al colmo l'esasperazione della gente: se avesse avuto la pelle meno rude e le ossa meno dure, sarebbe dovuto soccombere in quel tumulto. Preferì un'altra soluzione e, dopo un raglio formidabile che fu udito a Novaggio, prese la fuga.

Ma una dozzina di giovanotti gli si misero alle calcagna e l'accompagnarono fino all'uscita del villaggio, poi gli lanciarono dietro i cani. Il povero asinello, sprizzando scintille dai quattro zoccoli, divorò in un baleno la strada di Pura per poi buttarsi in un bosco sulla sinistra, dove i cani rinunciarono a inseguirlo. Soffiava come un mantice; barcollava e andava a urtare tutti gli alberi; finalmente, sfinito, mezzo morto, si lasciò cadere sui ginocchi e si sdraiò.

A un tratto balenò fra gli alberi una specie di barlume rossastro e fosco come la luna quando si alza dietro i salici delle paludi. Un risolino secco si fece udire, simile a un verso di caprone, e l'aria cominciò a puzzar di zolfo. L'asino si ricordò che quello stesso odore l'aveva preso alle narici nella sua stalla, quando aveva ricevuto la visita del sagrestano. Egli scorse davanti a sé due punti rossi più roventi della brace. Allora riconobbe il diavolo: seduto coccoloni, il cornuto lo guardava con aria beffarda e ghignava.

L'asino abbassò la testa, perché ora comprendeva ciò che gli era capitato.

"Povero imbecille!" disse a se stesso. "Il diavolo ti ha fatto cadere nel peccato di vanità, e ti tiene in sua balia. Hai voluto fare il cantante, e la cosa ti è andata piuttosto male; ora, se ci tieni a salvar la pelle, il meglio sarà di far l'asino".

Fece dunque sembianza di essere agli estremi, e mandò fuori tre sospiri come se fosse stato sul punto di trapassare, cercò di rialzarsi su di un ginocchio e ricadde; tentò sull'altra gamba e ricadde ancora. Finalmente, dopo molti sforzi, riuscì a mettersi in piedi e fece quattro passi; ma inciampò in un sasso, andò a batter la testa contro una pianta e cadde lungo disteso. Allora il diavolo scoppiò in una risata.

"Chi è?" chiese l'asino. "Chiunque voi siate, abbiate pietà di un povero cieco! Attraversando questo bosco pieno di rovi devo esser stato colpito agli occhi. Ahimè! non vedo nulla e mi sento sfinito ... Per carità, rimettetemi in strada perché possa almeno andare a morire sulla paglia della mia stalla!".

"E se lo faccio" domandò Satana "che cosa mi darai?".

"Ma chi siete, voi che mi parlate?".

"Con te, e nello stato in cui ti trovi, non occorre far misteri: io sono il diavolo".

"Messer Diavolo, vi darò la mia anima, poiché è ciò che si dà sempre al diavolo".

"La tua anima d'asino non vale gran che, ma pazienza! Ti monterò in groppa e ti guiderò con i miei ginocchi".

"No, no, messer Diavolo, la gente mi ha caricato di colpi e sono così debole che non vi porterei! Camminate piuttosto davanti a me, se lo permettete, e io vi terrò per la punta della vostra coda".

"Se ci vuole solo questo per farti piacere, sia!".

Il diavolo si mise dunque davanti. Tenendo stretta tra i denti la punta della coda, e spostando le zampe una dopo l'altra, passo passo, l'asino seguiva tristemente. Il diavolo invece se ne andava tutto allegro, saltellando e fischiettando, perché il suo piano era bell'e fatto.

"Di questo passo" pensava "conduco l'asino al fiume, e tra alcuni istanti gli farò fare il tuffo. Mai avrò giocato un tiro più bello al vecchio curato; sarà la mia vendetta".

"Non così in fretta, messer Diavolo" sospirava l'asino. "Non così in fretta! Non ne posso più ... ".

Camminava tuttavia, con le orecchie basse, seguendo malgrado tutto il cornuto che, canticchiando, aveva imboccato la discesa verso la Magliasina. Docilmente il povero asinello si lasciò condurre fino a una roccia che si trova a monte di Pura e di Neggio, e ai piedi della quale il fiume spumeggia vorticosamente come in una gola. Il diavolo si chinò e costatò che la rupe era a picco; ingrossata in quella stagione, la Magliasina rumoreggiava come un torrente, tanto che Satana non poté reprimere un brivido. Si è che il diavolo ha paura dell'acqua, anche quando non è benedetta: e quella corrente impetuosa d'acqua così fredda che sembrava lì lì per gelare l'impressionava un poco. Ma non se ne inquietava poiché tutti sanno che il diavolo sa saltare: e si rallegrava in anticipo del tuffo che l'asino stava per fare.

"Sta bene attaccato alla mia coda" gli disse "e lasciati andare. Non si tratta che di scavalcare il fiume. Con un balzo ti porto di là".

Ma l'asino non era sordo e, udendo il muggito della Magliasina, capì ciò che l'altro intendeva fare. Nell'istante in cui il diavolo si rannicchiava su se stesso per saltare, egli azzannò di colpo la coda con tutti i suoi denti, e si puntellò alla roccia con tutte le forze.

Il diavolo si lanciò con un balzo furioso. Ma se credeva di tirar dietro l'asino, fu ingannato: la coda, per la scossa violenta, si spezzò e rimase tra i denti dell'asino. Quell'incidente imprevisto avendo smorzato il suo slancio, il diavolo sbatté le braccia in aria e cadde pesantemente nel fiume. A Neggio, a Pura, a Curio lo si udì urlare. Era perché l'acqua diaccia gli raggelava il sangue, o perché la ferita lo bruciava? Nessuno ha mai potuto saperlo.

Trotterellando umilmente, l'asino tornò al villaggio. La Messa di mezzanotte era finita e il curato stava rientrando in casa. Cadendo in ginocchio, l'asino depose davanti a lui la coda del diavolo, tutta sanguinante. Il curato, senza saper ben spiegarsi la cosa, capì che la sua bestia si era presa una rivincita sul cornuto: e si presentava tanto sottomessa e pentita ch'egli le perdonò lo scandalo. E anzi, essendo la notte di Natale, la ristorò con una doppia razione di avena e con una scodella di vino caldo.

Quanto alla coda, essa fu inchiodata alla porta della sagrestia. Ogni volta che i chierichetti passavano con l'acqua santa, ci prendevano gusto ad accostargliela. La cosa allora si attorcigliava come quella di un maiale e si dimenava come un verme. Dal praticello dove stava brucando l'erba, l'asino la guardava e rideva, rideva".

Qui il mio narratore fece una pausa, poi riprese:

"Le ho raccontato la leggenda, ma c'è qualcosa da aggiungere. Una voce che non tardò a esser messa in giro pretendeva che la coda del diavolo sarebbe stata un portafortuna senza pari; allora, se si vuol credere alle male lingue, il sagrestano si sarebbe messo di nascosto a tagliarla a fette e a venderla; poi, siccome non poteva durare sempre, egli avrebbe provveduto a sostituirla di quando in quando con una volgare coda di maiale, ch'egli spacciava nello stesso modo dell'autentica coda del diavolo. Che cosa c'è di vero? Non lo so. Ma l'oggetto che le ho mostrato per mettere alla prova la sua sagacità potrebbe ben essere alla fin fine non altro di ciò che lei ha detto...".

 

Louis Delcros

Vita femminile, 1963


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