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La leggenda delle lucciole

Sul finir di maggio, a notte, tra l'erba e lungo le siepi dei prati vagano le lucciole, dal lumicino d'oro che si accende e si spegne in un ritmo continuo.

Un tempo, a quanto narra una leggenda del basso Malcantone, la loro fiammella rimaneva sempre accesa, irradiando un luccichio vivace.

Spettacolo attraente per tutti, le lucciole; specie per i fanciulli, che sull'imbrunire le inseguono e le chiamano.

"Paniròra" in molte terre luganesi è il nome dialettale della lucciola, detta così probabilmente perché essa si aggirava di preferenza nei campi di panico, cereale di cui nel passato, dalle nostre parti, si faceva un'intensa coltura.

I fanciulli chiamano:

"Paniròra, vegn da bas

che da sóra i tira i sas,

che da sóta i fa ura guera,

paniròra, vegn in tera".

 

Ecco: ciascheduno ha preso una lucciola e ora nel cavo della mano ne ammira il palpitante puntolino d'oro, simile a un minuzzolo di brace, che via via si ravviva e si muore.

Poi il piccolo libera la prigioniera e la lucciola volita qua e là, su e giù, mentre egli si diletta a rincorrerla e a richiamarla. E il bel giuoco dura tutta la sera.

Nel mese di giugno, infinite lucciole invadono la campagna di Neggio; parecchie svolano anche nell'aia e sotto il portico, dove un bifolco si riposa lungo disteso sopra un pancone. Egli, vedendosele aggirarsi attorno e alcune entrare persino in cucina:

"Ah, bricconcelle!" esclama con aria canzonatoria. "Ve ne ricordate ancora, eh? Ma adesso là dentro non c'è più nessuno a cui far chiaro!".

Che cosa possono mai ricordare le lucciole? E a chi han fatto chiaro nella casa? A tali domande risponde la nostra leggenda.

Due sorelle, non più giovani, abitavano una casetta isolata sulla collina di Neggio. Erano brave e oneste sarte, e lavoravano, come si suol dire, giorno e notte a cucire indumenti, a confezionare abiti, a ricamare biancheria.

Una sera, ai primi di giugno, si apprestavano a vegliare più a lungo del solito, per finire la veste nuziale d'una ragazza di Agno.

Se non che, appena passata qualche ora, il lume a olio che illuminava il tinello dà alcuni guizzi, oscilla e si spegne per mancanza di alimento.

Olio in casa le donne non ne avevano, candele neppure.

Il villaggio distava più d'un miglio e, dopo la giornata di gran lavoro attorno al fieno, tutti si erano coricati presto e non si doveva importunar nessuno.

Tuttavia bisognava che l'abito della sposa fosse ultimato senza fallo quella stessa notte, né si poteva certo cucire e ricamare al buio.

Una delle sarte si affacciò alla finestra che dava sul chioso e, veduta nel prato una danza di lucciole, rivolse loro queste parole:

"Vaghe creaturine che ricreate di luce i fiori del chioso, non verreste a illuminare i fiori che la mia Celestina e io stiamo ricamando in una veste di nozze, che dev'essere pronta per domani mattina? Ci rendereste proprio un gran servigio!".

A tanto fervore d'invito, le lucciole con pronto compiacimento svolarono innumerevoli nella placida stanzetta, che non fu più buia ma vivida di tanti lumicini accesi senza intermittenze.

Le sarte poterono così riprendere il loro lavoro e condurlo a compimento in modo egregio.

Con quale riconoscenza esse congedarono lo stuolo delle generose lucciole, e con quale soddisfazione, il mattino presto, recarono alla sposa felice la bella veste di seta, compiuta nel provvido chiarore delle lucciole!

Le sere successive, le lucciole ritornarono alla quieta stanza delle due operatrici, restandovi ospiti graditissime circa un paio d'ore.

Ma accadde che, una volta, le nostre sarte, abusando dell'aiuto delle lucciole, vollero costringerle a trattenersi oltre il consueto. A tale scopo richiusero le finestre e quando, verso le undici, le minuscole bestiole mossero verso il chioso, ne ebbero preclusa l'uscita.

Contrariate e offese, le lucciole cercarono di abbuiar la stanza, estinguendo la loro fonte luminosa, ma per quanto facessero vi riuscivano solo per brevissimo momento, poi che la loro scintilla sebbene attenuata appariva di nuovo. Ripetuti, ostinati tentativi di spegnimento riuscivano sempre vani.

Da quella lontana notte, le lucciole con moto continuo accendono e spengono l'esilissimo lume "come occhio che s'apre e si chiude".

 

Virgilio Chiesa

Almanacco Ticinese, 1937


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