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Il lupo di Curio

Era ormai ora di finirla con quel maledetto lupo che si aggirava da anni, indisturbato ed imprendibile, per la vallata della Magliasina portando e lasciando però solo in quel di Curio il segno della sua ferocia.

Tanti, ma tanti anni fa, anni perduti nella memoria dei tempi, tutta la valle era come ipnotizzata dalle scorrerie di un insolito lupo che, per dimensioni e furberia, superava di gran lunga tutti gli altri esemplari della sua specie. Da pochi era stato visto, e quei pochi lo descrivevano come una bestia di dimensioni enormi e d'uno sguardo da cui traspariva ferocia famelica (e crudeltà).

In questa meravigliosa valle della Magliasina, allora come oggi, le stagioni si susseguivano immutevoli, e le montagne, d'inverno, si presentavano nel loro massimo splendore. In primavera poi, la neve iniziava a sciogliersi, prati e pascoli rinascevano nei loro più pomposi e seducenti abiti. A mano a mano che ci si inoltrava nell'estate, i fiori scomparivano, calpestati o distrutti da uomini e da animali, mentre la cima del Tamaro rimaneva sempre rivestita da un ghiacciaio lucido come uno specchio. Appena terminata l'estate, il clima si faceva rigido dando ad arbusti e a cespugli colori vivaci quasi a salutare l'estate morente. La montagna si spopolava. Il bestiame discendeva dalle alte pasture. Ancor qualche montanaro qua e là, intento alla ripartizione del formaggio, qualche cacciatore, qualche ritardatario, e poi ... il silenzio!

Ma tanti, tanti anni fa, il silenzio era interrotto dall'ululato del lupo solitario che, come a protestare per il bestiame sceso a valle e custodito nelle casalinghe stalle, fuori dalle sue brame, ricordava ai buoni Curiesi la sua inesorabile presenza. Egli aveva finito le sue libere scorribande per i pascoli, godendosi il bestiame quasi incustodito nella solitudine della montagna.

Ed anche lui, allora, scendeva a valle, portando il terrore nell'abitato con la sua audacia senza precedenti. L'autunno declinava e gli abitanti di Curio riprendevano il corso normale delle loro occupazioni in paese ridiventando semplici contadini. Approfittavano della sosta in paese per trasportare agli abitanti il fieno delle cascine più discoste, preparavano nei boschi la legna che li avrebbe riscaldati durante l'inverno o che, ridotta in travi e tavole, sarebbe servita a rifare le vecchie costruzioni o ad innalzarne delle nuove.

Su tutta la valle della Magliasina, l'aria si faceva viva e tagliente e le soste del sole all'orizzonte sempre più brevi. La neve aveva ormai fatto la sua apparizione ed i ghiaccioli pendenti dagli abeti e dai castani spogli creavano fantastici arabeschi che scintillavano come fossero diamanti. E mentre la natura svolgeva indisturbata il suo ciclo meraviglioso, gli abitanti di Curio non potevano godere questo fenomeno che ogni anno si ripeteva, perché la loro grande preoccupazione era quella di cacciare una volta per sempre, e prima che venisse nuovamente l'estate, quella maledetta bestiaccia che, solitaria e indisturbata, osava sfidarli, azzannando ed uccidendo senza pietà.

Non v'era stalla né recinto, per quanto robusti fossero, che potessero resistere alla sfacciata astuzia e ferocia dell'ormai famigerato lupo. Tutti ne erano spaventati ed ogni anno rinforzavano le cinte delle loro proprietà per difendersi da quello che era diventato il loro peggior nemico. Anche i piccoli del paese si intimorivano dicendo loro che, se non si comportavano bene, il lupo li avrebbe mangiati. Tutti, indistintamente, avrebbero preferito aver a che fare con valanghe, incendi o inondazioni e non con colui dietro il quale rimanevano solo stragi.

Una domenica di novembre i maggiorenti di Curio, dopo molte discussioni e proposte, decisero che ogni famiglia o fuoco avrebbe dovuto mettere a disposizione almeno una persona per organizzare una battuta senza precedenti. Un primo gruppo avrebbe dovuto circondare il Monte Mondini, un altro aggirare il Monte Gheggio per poi ritrovarsi verso Novaggio e «battere» poi il Monte Lema. Mai si era vista un'attività più intensa: si sarebbe detto un esercito che approntava le difese in vista di un attacco da parte del nemico.

Partiti gli uomini-cacciatori, muniti di ogni sorta di armi, dalle lance alle spade, dalle mazze ai pugnali, dagli archi ai rastrelli in ferro, le donne rinchiusero il bestiame nelle stalle sprangando le porte di case e pollai e raggiunsero la chiesa per il rosario, invocando San Pietro, patrono del paese, affinché si potesse accelerare la cattura o l'uccisione del lupo, e por termine così alle stragi che da lunghi anni affliggevano il villaggio.

Le voci dei cacciatori e l'abbaiare dei cani si erano andati affievolendo con la distanza e la notte s'inoltrava con la sua coltre oscura su tutta la regione. Il salmodiare convinto e monotono delle donne e dei più piccoli si udiva al di fuori della chiesa e la tremula luce delle candele illuminava debolmente il sagrato.
Anche l'unica osteria detta «Piazza Grande» gestita dal Cech, che da giovanotto era emigrato in terre lontane ma che non aveva saputo resistere al richiamo del paesello natio ed era tornato iniziando appunto questa nuova attività, anche questa osteria, dicevamo, quella sera rimase chiusa, poiché il Cech si era associato alla già folta schiera dei cacciatori. In paese erano rimasti solo gli anziani e cioè il Ninöö, il Tumas, il Giorg, il Pedru capeggiati dal Sep che, con i suoi novant'anni passati, oltre ad essere il decano del paese, passava per il saggio del posto, ed inoltre, essendo conoscitore palmo per palmo di tutte le zone che stavano per essere battute, spiegava come, secondo lui, si sarebbe potuta concludere la battuta in corso. L'entusiasmo di questi anziani era alle stelle e se non fosse stato per quella maledetta età si sarebbero loro pure portati sul posto per dare aiuto. Erano però tranquilli e fiduciosi che questa levata in massa dei curiesi avrebbe finalmente portato il successo desiderato e già immaginavano il momento in cui essi pure avrebbero tracannato qualche litro di americano per festeggiare la vittoria sul lupo.

Discussioni, pipate e sigari si susseguivano sulla piazzetta della «Tenasca» quando, ad un tratto, il Sep vide un bagliore improvviso, quasi come di incendio, elevarsi sul dorso del Gheggio, proprio sopra il villaggio nella zona «Sora ai cà»,
«Ma quella è la cascina della Zilia» si mise a gridare. «Bisogna suonare subito campana a martello» e cercando di accelerare il passo abbandonò il gruppo e giunse alla chiesa proprio quando ne sortivano le donne. Parlottò in fretta e furia con alcune di esse e si attaccò alle campane.

«Brucia la mia casa!» gridava correndo la Zilia. «Che ne sarà del mio piccolo Michele? Micheeeleee!», gridava come un'ossessa la povera donna. Le altre donne, esse pure correndo, furono presto sul posto, sicure che una tragedia si stava compiendo e che il bimbo lasciato dormiente nella sua culla, con il camino acceso per mantenerlo caldo, fosse già morto bruciato.

Trafelati, sudati, sporchi e tremanti anche molti degli uomini partiti per la spedizione e raggiunti sia dal cupo suono della campana sia dal bagliore dell'incendio giungevano sul posto del disastro, interrompendo la battuta al lupo. Erano scesi a rompicollo, prendendo il sentiero che più velocemente portasse all'incendio

Avevano ancora in mano le armi, che alla luce delle fiamme, mandavano un balenio sinistro, quasi annunciando la morte. I gruppi si ritrovarono lì, insieme, uno di fronte all'altro, come fosse stata una rappresentazione teatrale o fossero stati messi lì da qualche geniale scenografo, allibiti, impotenti di fronte alla cascina che stava per essere completamente distrutta. Le bestie, impazzite dallo spavento, avevano sfondato la porta della stalla ed erano fuggite via verso il bosco, e, era proprio il caso di dirlo, «in bocca al lupo», perché certamente quel gaglioffo avrebbe senza dubbio approfittato del disastro per azzannare e squartare il bestiame sprofondatosi, pazzo di terrore, nel bosco vicino.

Sconvolta dal dolore, Zilia, che in questo momento era stata raggiunta dal marito Placid, si stava lanciando nell'immane rogo in un tentativo sovrumano di salvare il piccolo Michele, anche a costo della propria vita, quando uno spettacolo difficile a credersi si presentò agli occhi di tutti. Una trave di sostegno della casa precipitò con fragore al suolo, mandando scintille e nuvole di fumo e cenere e da quella scena quasi dantesca si vide sgusciar fuori, quasi d'incanto, la sagoma enorme di un lupo, che appena fuori dall'inferno depositò al suolo un fagotto che lì per lì non poteva essere identificato. Poi una esclamazione sorda e potente si elevò da quelle bocche marcate dal dolore e dallo spavento. Molti si fecero il segno della croce, altri si inginocchiarono alzando gli occhi al cielo, altri singhiozzavano. Placid e Zilia erano lì come inebetiti, fermi, impietriti, quasi fossero due figure uscite appena dallo studio d'uno scultore. Si vedeva in loro ancora la forza dello slancio per entrare in quel posto che era stato, fino a pochi minuti prima, la loro casa. Il lupo! Quel maledetto lupo che aveva semidistrutta la tranquillità dei poveri Curiesi, se ne stava ora seduto col pelo bruciacchiato, gli occhi sfavillanti, le narici tremanti. In terra, vicino alle sue zampe anteriori, giaceva il piccolo Michele, ancora addormentato nel placido sonno degli innocenti. Nessuno aveva il coraggio di avvicinarsi a quella terribile bestia. Solamente la forza sovrumana dell'amor materno di Zilia vinse l'indecisione e la paura e con passo tremante, gli occhi pieni di lacrime, le braccia tese, essa si diresse implorante verso il «terrore di Curio».

La bestia la guardò, retrocesse di mezzo metro quasi come per comunicare d'essere d'accordo che la donna raccogliesse il piccolo. Ed anzi, chi avesse osservato gli occhi torvi di quella bestia avrebbe constatato come si fossero trasformati in un misto di dolcezza e d'implorazione. Poi girò la testa verso il rogo della casa distrutta e si diresse verso il bosco, con passo lento, quasi zoppicante, fra lo stupore di tutti. Quella fu l'ultima immagine che il feroce lupo lasciò di sé. Era svanito così, come nel nulla della notte, lasciando dietro di sé sgomento e gratitudine.

Da quella sera più nessuno osò parlare di caccia al lupo e da quella sera più nessun danno venne provocato dalla bestia. Nella popolazione, piano piano, si andarono dimenticando le sue malefatte, mentre sempre più era fatto oggetto di discorsi nei quali spiccavano le parole riconoscenza e gratitudine.

Si era appena entrati nel terzo inverno dal fatto, quando verso mezzogiorno, mentre intensamente nevicava e Placido e Zilia, rifatta sul posto la loro dimora, stavano consumando il pasto frugale, si sentì un abbaiare concitato del cane di guardia. Uscirono per controllare cosa poteva essere successo a quell'ora e videro disteso davanti al loro uscio, un bestione spelacchiato, disteso sulla neve, con gli occhi semichiusi, ansimante, col fiato corto. Il loro cuore, prima dei loro occhi, aveva rivelato chi potesse essere questa bestia ormai morente. Con visibile commozione la ricoprirono d'un telo ed il fatto venne subito reso noto a tutti i compaesani. Venne poi caricato su di una slitta e seguito da grandi e piccini, venne accompagnato lungo le strade del paese scendendo da Cuzzora, alla Piazzetta, alla Tenasca, in Piazza Grande per poi finire in Piazza Fontana ove gli uomini, d'accordo colle autorità comunali ed ecclesiastiche, decisero, quasi fosse un'assemblea pubblica, di scegliersi quale emblema per il villaggio la testa del lupo, di quel lupo che aveva fatto così tanto danno, ma che però aveva salvato da sicura morte un loro compaesano.

Così ancor oggi, e da tanti e tanti anni, all'entrata di Curio, in mezzo a due graziose fontane, fa spicco la testa del lupo, dalla cui bocca zampilla un getto d'acqua fresca e cristallina. Gli abitanti di Curio, poi conosciuti per il loro gran cuore, sono per antonomasia ovunque chiamati «i lüf da Cür».

Giacomo Giamboni, Il Malcantone, n. 7, 1971


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